An attic full of train si compone di immagini che Alberto di Lenardo ha scattato durante viaggi familiari, ritratti di persone care, luoghi del cuore e la curatela del libro è ad opera della nipote Carlotta di Lenardo. Questo però non basta ad incasellare le sue fotografie e questo libro nel genere fotografie di famiglia. Il patrimonio iconografico che il nonno di Carlotta ha lasciato in eredità alla nipote ha una struttura ben congeniata, autoriale, non è opera di un semplice fotoamatore. Le immagini si susseguono seguendo un’idea, un principio, un progetto, non sono tenute insieme semplicemente da uno scontato sentimentalismo. Fanno riflettere su questioni insite nel linguaggio fotografico, sulla trasmigrazione culturale e visiva del patrimonio familiare, sulle dinamiche di paternità dell’opera. Se si va oltre all’apparente dimensione privata ed intima del libro si riscoprono autori che hanno fatto la storia della fotografia.

Come si trasmette un patrimonio visivo generazionale e familiare? Dall’ambiente? Da un vissuto esperienziale comune? Da un vissuto visivo comune? Dai racconti e dalle storie che si tramandano per via orale da generazione a generazione? Dalle testimonianze scritte e dai libri che vengono lasciati come testamenti culturali? Dagli archivi e dalle biblioteche che vengono passate di mano in mano per creare un’identità culturale di famiglia? Carlotta di Lenardo potrebbe avere la chiave di lettura a queste domande o per lo meno, grazie alla strabordante produzione fotografica del nonno Alberto e alla sua passione per la fotografia, lei può tranquillamente sostenere che il suo mondo visivo e l’intera sua vita è, in parte, il risultato di un fine lavoro generazionale. Non soltanto perché il nonno le ha lasciato in eredità più di 8000 immagini che sono diventate un libro, An attic full of trains (MACK, 2020), ma anche perché il pensare visivamente, senza ombra di dubbio, era un sentimento condiviso in famiglia. Un patrimonio non si costituisce esclusivamente dal lascito materiale, ma anche da un modo di sentire le cose, un sentire che si rende filo rosso di una narrazione a più voci, che segue lo stesso flusso, lo stesso modo di avanzare. Per questo motivo An attic full of trains, libro di Alberto di Lenardo a cura di Carlotta di Lenardo, non è assolutamente il prodotto di un semplice e fortuito ritrovamento fotografico: una nipote che rovistando tra gli averi del nonno scopre un bel malloppo di fotografie impolverate e presa dal ricordo nostalgico decide di pubblicarle. Ma è, invece, il risultato di un processo lungo e cosciente di trasmissione generazionale, iniziato come scrive Carlotta quando «Avrò avuto 16 anni , durante un pranzo di famiglia, [il nonno] iniziò a parlarmi di una sua grande passione, questa in verità non molto segreta: il suo amore di una vita per la fotografia. Fu allora che, per la prima volta, condivise con me il suo archivio di più di 8000 fotografie.»

Come quelle immagini sono diventate altro nelle mani di Carlotta? Come e in che misura, con il suo operato di editing e di allestimento del libro, Carlotta ha fatto emergere una sua lettura delle immagini? Quanto permane dell’esigenza fotografica del nonno nelle scelte di Carlotta? Sono i normali quesiti che ci si pone quando il dialogo tra autore ed editor/curatore si fa serrato, ma in questo particolare caso i legami di famiglia e tutti i rimandi che ne conseguono aggrovigliano ancora di più la questione. Probabilmente è sbagliato tracciare e cercare un confine tra le immagini scattate da Alberto di Lenardo e il lavoro di narrazione visiva creato a posteriori da Carlotta perché insieme al materiale cartaceo che la nipote ha ereditato c’era anche un lascito ben più impalpabile e prezioso: un’estetica comune, un sentimento di lettura del Mondo partito dal nonno e tramandato alla nipote (senza chiedersi anche da chi il nonno lo abbia ereditato a sua volta, altrimenti il discorso si farebbe troppo lungo). La matrice è quindi la stessa, la narrazione infatti risulta intima e privata. Non solo perché le immagini scattate si focalizzano effettivamente su una realtà ovattata ed affettiva, fatta di viaggi e di familiarità, ma anche perché chi ne ha diretto le trame tra le pagine bianche del libro è stata una persona che quella realtà fotografata l’ha vissuta in prima persona. Carlotta ne faceva parte e di conseguenza ha saputo sapientemente dove mettere le mani.

Alberto di Lenardo era un amatore della fotografia, ma oltre al sentimentalismo romantico ed istintivo ha saputo infondere alle sue immagini anche una sapiente ricerca sullo sguardo, sugli attori che calcano il palcoscenico delle sue immagini. Per contenuti torna alla mente il nostro Luigi Ghirri, anche lui tanto deliziato dal linguaggio meta fotografico; per ambientazioni (gran parte del paesaggio fotografato è quello americano), inquadrature, luci e colori il rimando corre invece a William Eggleston, padre di quella fotografia americana che ha saputo rendere la quotidianità e le scene comuni primo e osannato attore. Si alternano ritratti, giochi di luce, giochi di sguardi, città viste da un occhio che sapeva cogliere il bello. An attic full of trains è un lavoro coinvolgente, che ti fa sentire dentro a un flusso che scorre un po’ nostalgico ed emotivo, forse per quella sua luce un po’ giallina, forse anche per quel pizzico di ironia che Carlotta è riuscita ad aggiungere con il suo editing. Fa pensare alle cose perdute, vissute ma passate. C’è da chiedersi se Alberto di Lenardo scattasse di pancia o se lo facesse con un pensiero ben ponderato e consapevole, se conoscesse certi autori e avesse letto certi libri sulla fotografia. Le sue immagini anche se riprendono soggetti banali, non lo sono mai; anche se sicuramente fotografava quello che lo colpiva e lo catturava lo faceva come se la fotografia fosse l’unico linguaggio possibile, una necessità, un’esigenza, il suo modo di comunicare la sua vita.

Un qualcosa di naturale e innato come respirare. Ho chiesto a Carlotta se i soggetti ritratti fossero tutti loro conoscenti, parenti, amici perché la vicinanza tra Alberto di Lenardo e chi fotografava la si avverte non esclusivamente da un punto di vista fisico, ma si mostra come un coinvolgimento emozionale, affettivo, indistintamente da scatto a scatto. I luoghi sembrano tutti luoghi dell’anima, in cui pare trasparire un trascorso di qualche genere, il trasporto emotivo del ricordo. Carlotta mi ha confermato che a suo nonno piaceva mixare i suoi affetti con volti incontrati per caso e con luoghi visti per la prima volta. Il riconoscere, tra le immagini di An attic full of train, dove effettivamente esista il vissuto personale di Alberto di Lenardo e dove no è un gioco troppo difficile e anche forse inutile, perché quello che conta e quello che fa apprezzare questo bel libro non è tanto l’immagine singola, ma il continuum di immagini e sentimento partito dall’occhio del nonno e concluso dalle mani sapienti di Carlotta, la nipote.