Jacopo Benassi è viscerale, totalizzante, performativo, una figura che culla coerentemente al suo interno le contraddizioni della vita, una persona che intitola la sua mostra (esposta al Centro Pecci di Prato nel 2020), VUOTO, per un’esigenza, la sua, di spogliarsi del proprio patrimonio artistico e fare i conti con uno studio e uno spazio vuoto. Per fare i conti con se stesso. Al Centro Pecci di Prato espone, ci tiene a precisarlo, «i 25 anni della mia vita omosessuale, non solo fotografica e professionale» con un concentrato oltre che di immagini e di progetti, anche e soprattutto di vissuto. Perché Benassi fa della sua vita il motore trainante della sua arte o forse, meglio, fa della sua arte il motore trainante della sua vita. E come lui le sue fotografie sono vere, sincere, sporche di quei valori conflittuali che compongono il tutto, vissute da quell’underground che lui tanto ama e di cui si è fatto promotore per anni.

«L’underground sta sparendo e io sono qui invece a rivendicarne l’essenza» dice assicurandosi che il messaggio venga recepito. La mostra si apre con la scenica installazione Vuoto con cui Benassi ha compattato e accatastato parte dei materiali presenti nel suo studio di La Spezia. Una messa in scena, congeniata dall’artista ligure insieme alla curatrice Elena Magini e Cristiana Perrella, direttrice del Centro Pecci, che non riproduce fedelmente lo studio di Benassi, ma piuttosto la sua filosofia in cui la vita e l’arte si compenetrano talmente capillarmente da non capire più dove inizia una e finisce l’altra. L’installazione risulta dimora di simboli icastici che perdono la loro valenza rappresentativa per confluire in un unico culto, quello di Jacopo Benassi. Le immagini, gli oggetti, le frasi incise sul legno, i motti strappati dai giornali, i volti di santi e di idoli popolari, le fotografie incorniciate dello stesso Benassi, si spogliano del loro valore sociale, storico, rappresentativo e vanno a creare una compatta muraglia d’arte e di vita, inespugnabile. Non c’è spazio per altro e diversamente dalla denominazione dell’installazione non ci sono vuoti interstiziali.

Come una compagine gli elementi ci demarcano l’esserci dell’artista, ma anche dell’uomo, e il vuoto del titolo ci lascia ad intendere che Benassi, però, con questo “spazio pieno” riflette anche su uno “spazio sgombro” – probabilmente mentale – per mutare e diventare altro. Seguono i lavori di 25 anni vita – artistica, omosessuale, fotografica, umana – non con un filo cronologico, ma per tematiche, in un certo senso per valori, principi e tappe esistenziali: il corpo, l’identità, la moda, la musica, l’eros. A volte compare un’eroticità primordiale, istintuale, spiattellata e mostrata senza filtri, quasi appositamente rivelata per dare fastidio all’occhio, in maniera impertinente; a volte, invece, gli snodi verso la scoperta della propria identità sessuale sono cadenzati da processi artistici simbolici e non ostentati, intimamente delicati.

Ne è un esempio Selfportrait 1970/2019, installazione in cui compaiono – a volte come rappresentazioni fotografiche a volte come oggetti reali – le ciabatte di Benassi, simulacri della sua presa di coscienza identitaria e omosessuale. Il feticcio del piede, estrema rappresentazione sessuale per Jacopo, fa capolino all’occhio dello spettatore senza troppi proclami, si insinua con un linguaggio visivo sussurrato senza ostentazione, diversamente dal progetto Fags in cui il privato dell’artista, i suoi amanti o meglio i loro corpi, è documentato – rapporto dopo rapporto, anno dopo anno, anatomia dopo anatomia – in maniera esplicita e brutalmente sincera. Dai primi anni del 2000 Benassi usa la sua vita sessuale come epifania per un suo stile fotografico di cui si servirà per molto tempo.

I corpi di Fags sono fatti di carne, umori, pulsioni, profondi istinti primordiali ed identitari e così la domanda a Jacopo viene spontanea: «Esponendo Fags, mettendo un punto finale al progetto, simbolicamente metti un punto anche ad una tua specifica estetica sul corpo?» risposta: «Sicuramente è finita un’epoca e devo dire che è un po’ di tempo che non produco più immagini esclusivamente focalizzate sulla mia identità omosessuale, ma mi sono concentrato più sulla concezione di corpo come figura artistica». Altri tipi di immagini compaiono sulle pareti del Pecci, quelle legate alla moda (Nan Goldin Prada, Versace anniversari, Polsini), alla musica (Lindo a Cerreto Alpi che taglia la criniera, Kim Gordon dei Sonic Youth, Debbie Harry dei Blondie), alla storia del locale che Jacopo Benassi aveva aperto a La Spezia, il Bitomic (Batteria, Chitarra sul palco, Ritratto della band attraverso il pubblico), alla reclusione durante l’emergenza sanitaria da Covid-19 (Brutal Casual) e al mondo dell’industria tessile di Prato (The Belt).

Lavori che vanno oltre alle vicende autobiografiche e identitarie di Benassi, ma in cui comunque permane l’impalpabile sensazione di trovarsi davanti alla stessa crudezza e forza brutale delle sequenze erotiche di Cina, libro mai pubblicato e presente al Pecci sotto forma di menabò. Perché ciò che è erotico, crudo, brutale, talmente sacrilego che diventa sacro, rituale non è tanto il soggetto delle immagini di Jacopo, ma il suo stesso stile: un b/n con uso di flash che sembra intaccare le carni, scenderne in profondità per portarne in superficie le viscere e gli umori. Uno stile che ti prende alla gola.