Partecipanti alla XVIII edizione di FOTOGRAFIA EUROPEA di Reggio Emilia, il duo fotografico Jean Marc Caimi e Valentina Piccinni espongono il terzo capitolo della trilogia sulle città immortalate nel fermento del loro cambiamento. Dopo Napoli e Roma è stata la volta di Istanbul con il progetto Güle Güle. Li abbiamo intervistati sul loro lavoro e sulla mostra presente al festival.

Come nasce il progetto Güle Güle?
Il nostro interesse per Istanbul è iniziato molto prima di cominciare questo lavoro. Güle Güle è, infatti, l’ultimo progetto di una trilogia che vuole raccontare tre città “in trasformazione”: Napoli, Roma e per l’appunto Istanbul. A breve ce ne sarà anche una quarta, Strasburgo. Tutti e tre i lavori sono nati inizialmente come libri: Forcella, pubblicato nel 2015 da Witty Books; RhOME, pubblicato nel 2018 da MASA/FUAM editions; ed infine Güle Güle, pubblicato nel 2020 da André Frère Éditions. Sono tutte città che stanno subendo e resistendo a delle forti correnti di appiattimento e uniformazione a diversi livelli.
Qual è stato il vostro approccio alla città di Istanbul e al progetto?
Per Güle Güle abbiamo deciso di raccontare Istanbul come avremmo fatto per un reportage giornalistico, come lavoriamo anche per tutti i nostri lavori che non sono autoriali: dividendo la storia e costruendola pezzo per pezzo. Cercando, sul territorio, i contatti e le informazioni di ogni tassello; per poi rimetterli insieme come in un puzzle. Inoltre è molto utile anche lasciarsi trasportare dagli accadimenti del momento, dalle persone che si incontrano lungo il percorso. Güle Güle vuole essere un’indagine sulla città turca e, nello specifico, sulle sue comunità a rischio, a cui il governo di Erdoğan sta infliggendo le sue autoritarie imposizioni. Il progetto cerca di restituire tutta l’energia che abbiamo assorbito noi dalla città di Istanbul, da quella parte della sua popolazione messa ai margini. Un’esplosione di voglia di progresso e futuro, di integrazione, un’energia che fa paura al governo che cerca di soffocarla.

Quali sono queste comunità a rischio?
La comunità LGBTQ+, i curdi, i rifugiati e le donne, le classi sociali più povere. Tutte comunità fortemente discriminate e che lottano strenuamente per i propri diritti. Le donne, ad esempio, si battono da anni per avere un riconoscimento diverso nella società turca e solo formalmente è stato loro riconosciuto.
Le classi sociali più povere, vittime della feroce gentrificazione in atto soprattutto nei quartieri storici di Istanbul, sono prese e spostate in altri quartieri e contesti della città, più periferici ovviamente, dove gli viene a mancare la rete di sostegno con cui riuscivano a sopravvivere.
La vostra narrazione, solitamente, porta avanti un’estetica molto d’impatto, un ritmo non lineare, frenetico. Per la trilogia avete scelto tre città che, nel pieno del loro processo di trasformazione, sono altrettanto non lineari e frenetiche. Nella scelta delle città da raccontare ha avuto un peso anche il modo in cui le avreste raccontate?
Non necessariamente il luogo deve prestarsi al nostro stile. Ovviamente per creare una narrazione ci facciamo influenzare dall’atmosfera del luogo e, poi, sicuramente teniamo conto della nostra visione. Sono un po’ come dei vasi comunicanti, senza snaturare né una cosa né l’altra. Ci facciamo influenzare dall’esperienza della città e, poi, mettiamo la voce su quell’esperienza. Ci sono dei luoghi che sono, ovviamente, più esplosivi, come Istanbul o Napoli, forse leggermente meno Roma, ma la scelta di queste città di certo non è stata fatta a priori. Come ti dicevamo prima, ad esempio, siamo in partenza per Strasburgo, che, nell’immaginario comune, è sicuramente una città più tranquilla e meno complessa.

Come l’energia strabordante della città di Istanbul, di cui ci parlavate prima, è stata veicolata nella vostra narrazione?
Il nostro atteggiamento nel fare le foto è stato di libertà assoluta, sia nella ripresa tramite l’utilizzo del flash anche di giorno, sia nella fase di progettazione tramite la scelta di colori vividi e saturi, nessuna post produzione e un editing pensato in maniera da creare delle scintille, dei cortocircuiti tra le immagini. Volevamo innescare delle piccole bombe nello sguardo dello spettatore.

Nei vostri progetti prediligete trasmettere, tramite la complessità della narrazione, la sensazione di un ambiente, di un contesto. Difficilmente vi focalizzate su una storia specifica, così come ha meno importanza la singola foto, rispetto al dialogo tra le immagini. Ma c’è una storia che avete raccolto ad Istanbul che avete voglia di condividere?
Alla base dei nostri lavori rimane persistente l’interesse per l’essere umano. Effettivamente il nostro focus principale è il raccontare le comunità, l’energia che si mette in circolo tra le persone. In Güle Güle ci sono moltissime storie che ci hanno colpito, ad esempio quella della bambina con un occhio scuro e uno chiaro, il cui ritratto compare nel progetto. Lei è una ragazzina che abbiamo incontrato a Tarlabaşı, il quartiere più antico di Istanbul, dove ora abitano molti curdi e rifugiati. Era accompagnata dalla zia con cui ci siamo fermati a chiacchierare. Entrambe sono rifugiate siriane, arrivate in città da poco, i genitori della bambina erano morti mentre lei si era salvata. Secondo la zia, l’eterocromia della nipote era la testimonianza visiva dell’intervento divino che l’aveva risparmiata, rendendola in un qualche modo “speciale”.
C’è un’altra vostra immagine che risulta impattante rispetto alle altre, quella che avete intitolato The Falling Man, che richiama, sia per titolo sia per soggetto, la fotografia The Falling Man delle Torri Gemelle. Che attinenza c’è tra le due fotografie?
La storia di quella fotografia fa sempre parte della dinamica di esclusione imposta dal governo turco alle comunità di cui abbiamo parlato prima. La persona che si vede cadere fa parte di un gruppo di ragazzi che vengono definiti glue sniffers, sniffatori di colla, un modo per sballarsi rapido ed economico. Quello che si vede è il ponte di Galata, da cui si tuffano per immergersi nel Bosforo, sfidando la propria resistenza fisica.
La relazione con la fotografia delle Torri Gemelle è una relazione sicuramente visiva, ma racconta anche la frizione interna del governo contro la sua stessa popolazione. Nel caso del The Falling Man americano, poi, l’immagine rendeva visibile anche un’impossibilità di conciliazione tra la cultura occidentale e quella medio-orientale e l’inizio della loro polarizzazione. Ci teniamo però a sottolineare che la nostra immagine non è stata fatta per rimandare, volontariamente, alla fotografia americana. Inoltre, l’idea del nostro The Falling Man è nata dal testo di introduzione al libro di Brad Feuerhelm. Nello scrivere il suo testo ha preso quella fotografia come perno del suo pensiero per raccontare il nostro lavoro. The Falling Man è il titolo del suo testo ed è un suo racconto.

Güle Güle ha un valore anche politico?
Noi abbiamo voluto semplicemente rappresentare quella che era la situazione a Istanbul. Inevitabilmente quando si parla di società si parla anche di politica. La politica è, infatti, nel quotidiano di queste comunità ai margini di cui abbiamo parlato, provoca delle conseguenze, e noi abbiamo cercato di mostrare tali conseguenze.
Güle Güle non vuole, però, assolutamente essere un manifesto politico di alcun genere. Non partiamo mai con pregiudizi o con idee precostituite, il nostro pensiero prende una sua forma solo avendo la realtà dei fatti davanti agli occhi. Il nostro principale obbiettivo è documentare la situazione, non confermare un’opinione.
The Falling Man, oltre ad essere il titolo di una singola foto, è anche il titolo del video prodotto per la versione espositiva di Güle Güle, che sarà in mostra, insieme alle fotografie del progetto, durante la XVIII edizione di FOTOGRAFIA EUROPEA a Reggio Emilia. Il video è molto più esplicitamente politico, il differente medium vi è servito anche a quello?
Il video è stato prodotto dopo aver prodotto le immagini, quando già eravamo tornati da Istanbul. Quindi diciamo che abbiamo avuto il tempo di sedimentare certe considerazioni ed ampliare il nostro pensiero in merito alla questione turca e di manifestare questo ulteriore passaggio tramite il video. La modalità video, inoltre, rispecchia chiaramente la nostra voglia di approfondimento. Per la sua produzione abbiamo fatto molta ricerca negli archivi, ad esempio, tra il materiale video storico della televisione turca.
Güle Güle in turco significa “arrivederci”. Perché questo titolo?
La lingua turca è una lingua molto complessa e “güle güle” è invece un’espressione che si ricorda facilmente. Il valore che porta questa parola ha a che fare con il cambiamento, il sogno e la speranza: una città, Istanbul, che simbolicamente saluta il proprio passato, per andare incontro, invece, al proprio futuro, con la speranza che sia più inclusivo per tutta la popolazione turca. Un saluto alla vecchia Turchia, che lasci il posto ad una nuova Turchia.
GÜLE GÜLE
Jean Marc Caimi e Valentina Piccinni
Chiostri di San Pietro, Reggio Emilia
, FOTOGRAFIA EUROPEA 2023
fino all’11 giugno
Fotografia Europea 2023 | Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni