Cartographies è una serie fotografica che si concentra sui dettagli dei vestiti degli abitanti di New York, colti lungo le strade di Manhattan tra le 10 del mattino e le 7 di sera, come rimando al concetto di routine quotidiana. Pieghe, macchie e piccole tracce dell’abbigliamento diventano impressioni della vita di tutti i giorni, possibili cartografie dei viaggi di ognuno. Il libro, progettato come un quotidiano da sfogliare e nato da una campagna di crowdfunding, è costituito da venti fogli di una pregiata carta giapponese uniti da una banda elastica e alterna le fotografie originali con grandi dettagli a tutta pagina. Le fotografie di Louis De Belle sono accompagnate da un testo a cura di Francesco Pacifico, che mostra un ritratto impietoso e disilluso della vita in città. Abbiamo intervistato Louis per farci raccontare la sua esperienza.

Nasce durante una residenza d’artista a New York: mi era stato commissionato un lavoro che raccontasse la città, una storia lontana dai soliti cliché tipo i taxi gialli, le strade affollate e i palazzi. L’idea mi è venuta camminando e osservando le persone che incrociavo: ho deciso di concentrarmi su di loro e di lavorare sul concetto di serialità, che è quello che sento più vicino. La serie si focalizza sulla quotidianità degli abitanti della città e sui loro indumenti: camicie spiegazzate, tute da lavoro, magliette macchiate e sudate. I corpi delle persone diventano cartografie, mappe che costruiscono una geografia immaginaria della metropoli.
Il lavoro è rimasto chiuso in un cassetto per un po’ di tempo, non sapevo ancora bene che farne. Poi a un certo punto è stato notato da Joel Meyerowitz, che ha scelto di includere questa serie all’interno di un libro sulla street photography. Queste fotografie sono poi state esposte in una mostra a Berlino e sono state molto apprezzate da pubblico e critica. Nel frattempo, erano già passati cinque anni dalla realizzazione di Cartographies, così ho pensato che fosse arrivato il momento di progettare una monografia.

Sì, sono stato contento di presentare loro il progetto perché sono una casa editrice molto coerente con il tipo di lavoro che svolgo. Poi Humboldt è di Milano come me, quindi ci tenevo a pubblicare Cartographies “a casa mia”. La campagna di crowdfunding è andata molto bene, abbiamo quasi raddoppiato il goal previsto. La parte testuale è stata curata da Pacifico, perché anche lui in passato ha vissuto a New York e quindi poteva interpretare le mie immagini attraverso le sue parole. Quando ho letto il suo testo per la prima volta, l’ho trovato un ritratto brutale, impietoso e a tratti malinconico della città e dei suoi abitanti. Solo dopo ho intuito che poteva funzionare bene a contrasto con il mio lavoro.

Prima di tutto mi hanno spinto la passione e la dedizione per la fotografia e l’amore per i libri fotografici. Poi penso che la pubblicazione di un libro sia anche il simbolo di una nuova tappa raggiunta: è una sorta di check-point nella carriera di un artista. Sancisce di fatto l’esistenza di un lavoro, mette un punto fermo e diventa quindi uno step fondamentale per costruire un percorso artistico e professionale.