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    Cartoline dallo Studio Luce

    Simona Filippini ora vive e lavora come fotografa a Roma, ma a fine anni Ottanta, quando la sua professione doveva ancora decollare, era a Parigi, al fianco di Paolo Roversi. Ecco il racconto della sua esperienza

    Aspettando che sia possibile nuovamente visitare la retrospettiva dedicata a Paolo Roversi – Paolo Roversi. Studio Luce – al MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, abbiamo intervistato chi gli anni di quel famoso Studio Luce li ha vissuti da vicino. Simona Filippini ora vive e lavora come fotografa a Roma, ma a fine anni Ottanta, quando la sua professione doveva ancora decollare, era a Parigi, al fianco di Paolo Roversi. Ce ne racconta le pratiche, i dietro le quinte, gli aneddoti privati e come Roversi abbia plasmato la sua poetica, usando l’affettività e l’accoglienza per marchiare i suoi magnifici ritratti.

    Paolo Roversi fotografa la modella Nadja Auermann, con il figlio Francesco, Studio Luce, Parigi 1990 © Simona Filippini

    A fine anni Ottanta eri a Parigi, assistente di Paolo Roversi. Come è iniziata quella collaborazione?
    Nell’estate dell’89 avevo terminato i miei studi all’Istituto Superiore di Fotografia di Roma e in vacanza avevo conosciuto un gruppo di persone tramite cui poi incontrai Paolo per la prima volta, a Ravenna a fine agosto. Fu un incontro breve. Gli mostrai alcune mie fotografie di fine corso e lui, gentilissimo, mi prestò attenzione e poi mi salutò dicendomi: «Se passi per Parigi vieni a trovarmi in studio», una frase quasi di circostanza che io però presi subito alla lettera. In ottobre andai a Parigi e una coppia di amici dei miei nonni, Leo e Babette, mi ospitò a casa per lungo tempo. Iniziai a telefonare allo studio di Paolo per sapere quando potessi presentarmi e mi fu dato un appuntamento. Fu in quell’occasione che scattai le fotografie di lui che gioca a freccette con Yannick D’Is e Matteo Mantovani, che era il suo assistente. Da quel giorno chiamai lo Studio Luce almeno 2 volte a settimana, sempre chiedendo a Maggie, la segretaria di allora, se Paolo avesse bisogno di un altro assistente. Dopo molti tentativi, un giorno mi dissero che un assistente non stava bene e mi chiesero di sostituirlo. Sono rimasta allo Studio Luce per oltre due anni.

    Paolo Roversi, Yannick D’Is e matteo Mantovani giocano a freccette, Studio Luce, Parigi 1989 © Simona Filippini

    Cosa ti ha insegnato quell’esperienza, sia dal lato pratico che stilistico?
    Dal tempo della scuola guardavo avidamente i progetti di Paolo, con quel suo stile inconfondibile. Sinceramente non era la moda a interessarmi, ma quella luce che attingeva alla pittura rinascimentale italiana, le sfumature cromatiche, la scelta delle modelle, ragazze la cui bellezza si scostava dal canone dominante. Senza prevederlo mi sono trovata immersa in un mondo fantastico, la cui portata però, all’epoca, non ero stata capace di capire fino in fondo. Ero lì presente mentre, con la cura più grande ed un’inesauribile eleganza, Paolo costruiva ogni giorno il suo mondo magico. La mia formazione non ha investito solo l’ambito visuale, si lavorava ascoltando l’Opera, Chet Baker, Lucio Dalla e Paolo Conte, si parlava molto di cinema e di letteratura.
    Ricordo bene, in una pausa di lavoro, quando mi raccontò il film di Lynch, Cuore Selvaggio, che aveva visto la sera precedente al cinema e da cui era rimasto folgorato. Una formazione totale e immersiva.

    Paolo Roversi e Nino Cerruti scelgono le fotografie per la campagna_ Casa di Vetro di Pierre Chereau, Parigi 1993 © Simona Filippini

    Ci racconti un aneddoto del dietro le quinte dei suoi set fotografici o della vita che facevate a Studio Luce?
    Io arrivavo in studio alle 8.30 /9 del mattino, passando spesso prima a comprare i biscotti arancio e cioccolato che Paolo mangiava volentieri durante il pomeriggio con il tè, rigorosamente Fortum&Mason. Preparavo la colazione per tutti: caffè e croissant per le modelle, stylist, redattrici di moda, parrucchiere e truccatrice, mai meno di 10 persone. Verso le 10 sentivo sbattere la porta dal piano superiore, l’abitazione di Paolo, e come una danza di tiptap i suoi passi scendevano le scale. Sempre sorridente, salutava tutti molto affettuosamente e guardava gli abiti. Lì aveva inizio il lavoro “vero”. Fondo bianco, fondo nero, no fondo bianco, per finire spesso a utilizzare la coperta grigio/verde che Paolo si era trovato a studio un giorno senza sapere di chi fosse e che chiamavamo “la coperta di Linus”. Vederla ritratta anni dopo nel libro STUDIO (Staidldangin, 2008) mi ha molto commossa. Quando Paolo scattava, io ero alla sua destra: avevo il compito di impostare il diaframma e armare l’otturatore, con la sinistra tenevo lo chassis, pronta a porgerglielo all’ultimo momento. Lavoravamo perlopiù con l’amata Deadorf, una folding adattata per l’uso con i film Polaroid 20x25cm. Tra noi parlavamo un esperanto incomprensibile: italiano, francese, inglese. Il momento del pranzo, sempre molto conviviale, era un vero rito: grandi tavolate, cibo italiano, ma anche l’indiano del ristorante in fondo alla strada. Tra i miei compiti c’era anche quello di apparecchiare, sparecchiare e lavare i piatti, naturalmente. Conservo tantissimi ricordi: Isabella Rossellini, che veniva in studio per la campagna Lancome almeno 2 o 3 volte all’anno, o le prime fotografia di Eva Herzigova. Non dimenticherò mai, poi, quando Paolo chiese a Kristen Owen, la sua musa, di tagliarsi i capelli cortissimi: l’hairstylist, Yannick D’Is, lavorava al centro dello studio vuoto e le ciocche cadevano a terra, un momento che avrei tanto voluto fotografare. Una relazione di grande confidenza e tenerezza quella di Paolo con le sue modelle: capitava che qualcuna di loro arrivasse per presentare il fidanzato o un bebè appena nato. I bambini soprattutto erano e sono sempre i benvenuti. Paolo li adora.

    Insegna Hotel RomeLOVE, Piazza Vittorio Emanuele, Roma 2013 originale Polaroid 9×7 cm © Simona Filippini

    Sei partita dalla fotografia di moda, ora sei una fotografa con un tuo specifico linguaggio che si focalizza sul mondo femminile, sull’immigrazione, sulle questioni razziali, sui diritti umani e spesso sulla rappresentazione della tua città, Roma. Qual è stato il tuo percorso?
    Sono partita da un’esperienza parigina intensissima ma l’Italia mi mancava, così nel 1993 sono andata a Palermo per fotografare le manifestazioni di commemorazione, ad un anno dalla morte, dei giudici Falcone e Borsellino; poi nel 1994 ho documentato la quotidianità nel campo di accoglienza profughi della Ex-Jugoslavia gestito dalla Croce Rossa Italiana a Jesolo Lido. Mi sono sempre interessate le persone e le loro storie, ho usato la fotografia come strumento di conoscenza, sono mossa da una irrefrenabile curiosità dell’altro. Ho continuato a realizzare molti ritratti di intellettuali e gente comune, attività iniziata a Parigi, reportage di carattere sociale e ho collaborato con giornali e magazine. Poi con l’Associazione Camera21, che ho fondato nel 2008, mi sono dedicata a scandagliare la realtà italiana, attraverso la fotografia e il video. Ho scritto progetti di fotografia partecipata, realizzato mostre e video, coinvolgendo le donne o i giovani migranti o intervistando le persone di seconda generazione. Sono stati progetti molto impegnativi che ho avuto la fortuna di esporre in Italia e all’estero.

    Igiaba Scego © Simona Filippini

    Che cosa rimane della Simona di fine anni Ottanta nelle fotografie che fai oggi?
    Resta molto e anzi con il passare degli anni ho dato molto valore a quanto avevo realizzato nel mio percorso. Mi dedico spesso alla fotografia di ritratto e amo fotografare Roma e i suoi abitanti, portandomi dietro una polaroid che non ho mai smesso di utilizzare dai tempi parigini. Da qui è nato il progetto che negli anni ha preso il nome di Rome LOVE: iniziato nel 1993 al mio rientro da Parigi, esposto in diverse mostre tra cui nel 2003 ai Mercati di Traiano per FotoGrafia Festival Internazionale di Roma, divenuto poi un libro nel 2014 – a cura di Chiara Capodici e Fiorenza Pinna – con un racconto inedito della scrittrice afroitaliana Igiaba Scego ed esposto nuovamente nel 2019 per la mostra Taccuini Romani – a cura di Silvana Bonfili – al Museo di Roma in Trastevere con una selezione di oltre 70 polaroid originali. Un lavoro questo che negli anni mi ha tenuta in stretto contatto con il mio inizio: l’incontro rispettoso con l’altro, la polaroid – che avevo sperimentato allo Studio Luce – e lo spaesamento necessario a guardare ogni cosa con occhi nuovi.

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