Provincia di Firenze, 1968. Il mostro di Firenze colpisce per la prima volta e lo farà per altre sette, indisturbato per quasi venti anni. Dove finisce la sua leggenda e inizia la cronaca nera? Dove inizia l’immaginario collettivo e finisce la realtà dei fatti? Simone D’Angelo in Night never ends in me ricolloca gli eventi proprio in questo spazio limbico di suggestioni, ispirandosi liberamente agli eventi. Facendo dialogare immagini di repertorio a immagini simboliche che ci portano alla dimensione dell’immaginifico, lascia volontariamente sospesi gli indizi degli omicidi e il volto dell’assassino. Perché la risoluzione del caso non è certo compito di un fotografo, ma la trasmissione della sua carica iconografica sì.

In Night never ends in me riporti a galla una serie di eventi sanguinosi che appartengono alla memoria collettiva nazionale: gli omicidi del mostro di Firenze. Cosa ti ha spinto a parlarne?
Innanzitutto l’interesse per il caso. Non sono di Firenze e all’epoca ero solo un bambino, quindi conosco i fatti dai processi televisivi degli anni Novanta che fissarono Pacciani e i ‘compagni di merende’ nel nostro immaginario. La vera miccia per un progetto fotografico però si è accesa qualche anno fa proprio a Firenze a una mostra di Bill Viola a Palazzo Strozzi. Erano esposte anche le tavole di Cranach con Adamo e Eva, le collegai simbolicamente al caso e scattai i due particolari che sono stati sin da subito alla base del concept.
Immagino tu sia partito dai tuoi ricordi, quelli forse di un bambino. Cosa è rimasto di quello sguardo nel taglio concettuale che hai voluto dare al tuo progetto?
Di certo è rimasta la paura del buio e l’attrazione atavica per ciò che ci spaventa. Riprodurre questa emozione, attraverso prodotti pop come i film horror o le immagini in grado di renderci in qualche modo inquieti, ci ricorda che siamo stati a lungo prede, oltre che predatori, e che la paura è un meccanismo biologico di difesa necessario. L’altro lato della medaglia è il bisogno di esorcizzarla.

Hai fatto dialogare alcune tue immagini a quelle archivistiche non tanto per dare un volto all’assassino, quanto più per ricostruire un sentimento, un’ambientazione. Come hai creato la sequenza?
Non ho mai preteso di mettere ordine nella vicenda. Anzi sapevo che il lavoro di documentazione non poteva che finire per perdersi nell’interpretazione e nelle suggestioni, come se una forza centrifuga allontanasse dalla verità chiunque si avventuri nella sua ricerca. Sensazione che per me è l’essenza stessa di questo caso. Anche nella costruzione delle sequenze non c’è una narrazione lineare o cronologica. Unico punto fermo sono Adamo ed Eva separati come nelle tavole esposte agli Uffizi e posti ai due estremi, sia per rappresentare la separazione delle vittime nell’atto omicidiario, che per rendere il senso di circolarità della storia.
Al tempo degli omicidi l’opinione pubblica ne ha sviscerato in molte maniere la sua inscenazione. Quanto il taglio cinematografico e televisivo ha influito sulla produzione del tuo progetto?
Ha influito per l’indigestione di film in tema, soprattutto il genere slasher degli anni Ottanta che si presume potesse aver ispirato il killer, ma non ho mai pensato di replicare quell’immaginario, sin dalla scelta del formato verticale.
Quanto ha influito la rappresentazione che ne hanno fatto tv e giornali sul passaggio da episodio di cronaca nera a tassello importante della nostra cultura popolare?
Questo è l’aspetto che ha influito di più. Nel primo processo, lo stesso capo della Squadra Anti Mostro portò come indizio un parallelismo iconografico tra la foto di una vittima e la riproduzione di un particolare della Primavera di Botticelli trovato in casa di Pacciani. Anche la mente degli inquirenti viaggiava tentando di collegare l’orrore col sublime perché credo sia naturale lasciarsi affabulare dagli opposti e Firenze e suoi dintorni sono indubbiamente lo scenario ideale. Come lo erano per un capillare sottobosco umano, quello dei cosiddetti guardoni. Quella componente voyeuristica va quasi a coincidere col punto di vista del fotografo: trovandosi sulle scene dei delitti di notte, complice anche la suggestione, si sperimenta direttamente come il ruolo di chi osserva possa improvvisamente mutare con quello di chi è osservato.

Ci sono fotografi ed artisti a cui ti sei ispirato per produrre Night never ends in me?
Sì, forse non avrei affrontato il progetto se non avessi conosciuto altri autori che hanno fatto dialogare documenti e immagini d’archivio con foto evocative e di pura fiction. Penso sia l’output ideale per lasciare aperte delle porte interpretative. Un caposaldo del genere è Redheaded Peckerwood di Christian Patterson.
Ma, a parte tutto, tra una puntata di Blu Notte e una di Telefono Giallo immagino ti sarai fatto una tua opinione a riguardo. Veramente i ‘compagni di merende’ sono i veri serial killer?
Per la domanda da un milione di dollari ho la risposta da 10 cents: non lo so.