L’artista indiana Riti Sengupta, classe 1993, pur vivendo in un mondo che professa la cultura egualitaria e coltiva l’emancipazione dallo spettro patriarcale del secolo scorso, si interroga su come siano ancora prepotentemente presenti alcune dinamiche sociali difficili da estirpare. In particolare tutti quei fenomeni comportamentali, indipendenti dall’eredità geografica, ma comunque regolati da ritualità antiche, modelli educativi sbilanciati e aspettative matrimoniali che inesorabilmente finiscono per sedimentarsi sotto secoli di architetture famigliari. Delle vere e proprie macerie relazionali capaci di ripercuotersi soprattutto sull’autodeterminazione femminile. Pertanto, forzata a condividere nuovamente l’universo abitativo con i suoi genitori, Riti comincia a mettere ordine nel suo albero genealogico. Scavando negli album di famiglia si scontra con una macchina della negazione fenomenica, per cui nessuna donna ha mai ricevuto il giusto spazio rappresentativo per testimoniare la sua storia fuori dal contesto domestico. Una croce reazionaria che attraversa ben quattro generazioni e che, per vincolo morale, tende a cancellare l’individualità subordinandola all’asservimento amoroso.

Il progetto Things I can’t say out loud (c.2020) ha lo scopo redentore di dare forma a questa incompletezza storica. Riti Sengupta imposta quindi una narrazione performativa, fatta di sussurri visivi e grida spirituali, in cui lei e sua madre mettono in scena una serie di struggenti conversazioni fotografiche. Si susseguono così scatti ravvicinati, gestualità premurose e un deliberato utilizzo degli oggetti d’affezione per ripercorrere il destino di ciascuna figura marginalizzata dall’uomo. Ecco che metafore corporee, contrapposte ad ambientazioni casalinghe, esasperano l’ossessione maschilista della moglie devota. L’intera sequenza tende a creare uno scollegamento ritualistico tra tempo e spazio; perciò le immagini ci appaiono quasi come dei piccoli altari materni, abili a santificare il dolore dell’oppressione sentimentale.

Il lavoro di Riti Sengupta si sviluppa quindi seguendo una duplicità intenzionale: adoperare il legame parentale per compire una riflessione edificante sia sulla condizione della donna, sia sullo statuto fotografico. Di fatto Riti, in ultima battuta, ci mette davanti alla domanda: «può la rappresentazione iconografica, nella sua fisicità comunicativa, riuscire a sintetizzare l’invisibile?».