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    Effetto Marilyn

    Nell’era della post-produzione selvaggia e del costante vaneggiamento socio-fotografico viene da chiedersi: si può ancora parlare di bellezza?
    Weegee, il reporter delle sanguinose notti newyorkesi di metà Novecento, ci offre un intrigante appiglio per riflettere sulla condizione artificiosa del nostro presente. La sua Marilyn (ri-fotografata più di sessanta anni fa) non è certo uno scatto canonicamente armonioso, anzi qui le proporzioni fisiche vengono completamente stravolte: occhi, naso e bocca appaiono sul punto di sovrapporsi, quasi venissero risucchiati all’interno di un impercettibile buco nero posizionato al centro di un volto disumanizzato. Anche il perimetro squadrato del frame sottolinea una certa spietatezza rappresentativa, ingabbia la diva in uno spazio angusto che la costringe ad aggredirci con tutta la sua grottesca gestualità. Il concetto di perfezione esteriore vacilla e, in questa immagine proveniente dal secolo scorso, appare definitivamente distrutto. Marilyn, la donna dal fascino intramontabile, è ormai deturpata da un effetto clownesco, a tratti mostruoso. Diventa una caricatura esasperata del suo essere personaggio mediatico. Ma è proprio questa imperfezione latente, conferitale dalla maestria weegeeniana nello sfruttare le prorpietà dell’ingranditore analogico per ottenere una distorsione corporea, che la rende sensazionale. Aggettivo – sensazionale – adoperato tutt’altro che a caso, poiché si riferisce a “qualcosa” in grado di suscitare interesse, sorpresa, persino attrazione.
    Di fatto, davanti al ritratto contaminato di Marilyn, intitolato appunto Marilyn Monroe distortion, è impossibile trovarsi d’accordo su un’unica lettura emotiva. Nella sua drammaticità narrativa sembra rappresentare il pomo della discordia tanto caro alla mitologia greca, soltanto che nel nostro caso l’effetto collaterale del disordine percettivo di cui è portatore non sarà la guerra di Troia ma un conflitto di carattere fisionomico.
    Dicendo tutto ciò non intendo cadere in meccanismi retorici, capaci unicamente di utilizzare lo storytelling fotografico per affermare, ancora una volta, quanto l’idealizzazione stessa della bellezza sia sopravvalutata o tantomeno collegata a una dinamica meramente soggettivista, bensì dare speranza a tutte quelle povere anime che si avvelenano l’esistenza rincorrendo un irraggiungibile perfezionismo estetico.
    La fotografia è una messa in scena della realtà e come essa viene regolata da dinamiche fluide, spesso imprevedibili; pertanto non importa quanta attenzione ci sia dietro l’aspetto esteriore, poiché correremo sempre il rischio di incontrare un farabutto come Weegee pronto a sottolinearne la falsità.

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