Lo strumento fotografico ha la capacità di collocare un individuo all’interno di un preciso contesto, sia esso storico, politico o sociale. Roland Barthes nella sua Bibbia intellettuale La camera chiara (1980), definiva la fotografia – certamente più longeva del suo creatore – come attestato della presenza umana. Ad oggi, nella società dell’istante mercificato, sono proprio le immagini a raccogliere le tracce del nostro passaggio sulla terra. Ne deriva quindi la visione, comunemente accettata, che lo scorrimento temporale abbia una connotazione lineare, figlia di un processo statico in grado di muoversi unicamente in avanti. Ma se tutto questo meccanismo venisse messo in discussione da chi utilizza la fotografia come strumento di scissione cronologica?
Gillian Wearing percorre la linea degli eventi a ritroso per sconvolgerne il precario equilibrio interpretativo. Ci propone un immaginario pseudo-ascetico come alternativa alla fattualità del reale. Mediante costumi di scena, trucco e credibilissime protesi facciali l’artista inglese si fotografa mentre riporta in vita quei grandi autori a cui le leggi biologiche o il loro sostituirsi ad esse hanno reciso il filo dell’esistenza. Per cui, in questo racconto spirituale, Diane Arbus, Meret Oppenheim, August Sander, Georgia O’Keeffe e molti altri, vengono accolti in una grande famiglia creativa e sembrano non averci mai abbandonato.
All’atto pratico la Wearing mette la sua fisicità a servizio di una resurrezione iconografica. Ricorre alla poetica allegorica dell’autoritratto per costruire una personale connessione con opere che vantano l’appellativo di reliquie storiche. È come se, mossa da una condizione di esistenza di stampo pirandelliano, volesse a tutti i costi sostituirsi alla persona per trascendere l’idealizzazione del personaggio, e dunque comprenderne ogni sfumatura psicologica. Lo scatto intitolato Me as Mapplethorpe (2009) ne è un chiaro esempio. Qui l’autrice veste i panni di un Robert Mapplethorpe ormai consumato dall’AIDS, tristemente impegnato a scattarsi uno dei suoi ultimissimi self-portrait. A prima vista l’immagine ci appare per niente dissimile all’originale, ma osservandola meglio ci accorgiamo che gli occhi, punto di accesso per l’intera dinamica narrativa, sono quelli della stessa Wearing. Essi risultano intrisi del medesimo tormento mostrato dal fotografo nel 1988, quasi a voler sottolineare una comunione emozionale attraverso cui l’autrice sperimenta sulla sua pelle il compiersi di un tragico destino.
Mostrando quindi un approccio reverenziale, tutt’altro che profano, Gillian Wearing impasta la sua identità con il vissuto di ciascun soggetto accrescendone la sacralità contemplativa. Pertanto la serie Spiritual Family, dei primi anni 2000, sintetizza un processo in divenire dove passato, presente e futuro si fondono in un’unica dimensione atemporale.

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