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    Ghirri, tra immagine e testo

    Abbiamo intervistato Adele Ghirri, figlia di Luigi Ghirri che si prende cura dell’Archivio Eredi, in occasione dell'uscita della nuova edizione di 'Niente di antico sotto il sole', pubblicato da Quodlibet

    Recentemente Quodlibet ha ripubblicato, in una nuova edizione, un caposaldo per il mondo della fotografia e non solo, Niente di antico sotto il sole. Scritti e interviste di Luigi Ghirri. Pubblicato per la prima volta nel 1997 da SEI, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte e tornato alla stampa nel 2016, nella versione inglese, per l’editore MACK, il libro raccoglie il pensiero del fotografo emiliano nero su bianco. Nessuna immagine, solo pensieri tradotti in parole. Ci sono i testi introduttivi scritti per i suoi progetti, interviste, chiacchierate, impressioni, citazioni a un mondo della cultura che per Ghirri assumeva una conformazione rotonda, di continue contaminazioni e richiami. In molte parti del libro ne emerge uno stupore fanciullesco ma contemporaneamente una conoscenza profonda del mondo che gli stava davanti e del linguaggio attraverso il quale lo avrebbe raccontato. Una continua ricerca quella di Ghirri che, come questo libro dimostra, pensava per immagini, ma anche attraverso la parola scritta. Ne abbiamo parlato con Adele Ghirri, figlia di Luigi Ghirri che si prende cura dell’Archivio Eredi.

    Napoli 1981 © Eredi Luigi Ghirri

    Perché ripubblicare ora Niente di antico sotto il sole?
    È una fase tanto importante quanto delicata per l’opera di mio padre Luigi e per la percezione della sua figura da parte del pubblico, specialmente quello italiano. Il suo nome sta diventando più conosciuto e questo, per quanto rappresenti qualcosa di positivo per un artista, comporta anche il rischio di semplificazioni nella lettura della sua opera, specialmente nel campo della fotografia. Pensando al suo lavoro spontaneamente vengono in mente immagini di paesaggio italiano, ma c’è moltissimo altro, e credo che sia responsabilità di noi eredi dare la possibilità alle persone di scoprirlo. Così ho pensato che in questo momento fosse fondamentale una riflessione sul suo lavoro a un livello più profondo. Avendo scritto moltissimo nell’arco di vent’anni ed essendo la prima edizione dei suoi scritti ormai introvabile, era importante renderli nuovamente accessibili a chi apprezza o studia la sua opera, e anche a chi vi si avvicina la prima volta. Sono tutti saggi piuttosto brevi e dedicati a tematiche diverse, è quindi anche possibile leggerli aprendo il libro in un punto a caso, il che è bellissimo. 
Al di là di questo, credo che questo libro possa rappresentare non solo un’occasione per approfondire il pensiero di un autore, ma anche incoraggiare riflessioni più ampie sul tema dell’immagine e sulla cultura visiva, in un momento in cui si è esposti quotidianamente a un numero di fotografie che anche solo vent’anni fa era impensabile.

    È una stampa anastatica, oltre ovviamente all’introduzione di Francesco Zanot?
    Non proprio. La prima edizione conteneva un inserto con riprodotte 130 fotografie, oltre all’immagine di copertina, mentre questa nuova edizione è priva di un apparato iconografico. Sono stati invece aggiunti un indice dei nomi e una nota all’edizione in cui viene spiegata la storia del primo Niente di Antico Sotto il Sole – scritti e immagini per un’autobiografia, edizione del 1997 curata da Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte.
Si è deciso di non includere fotografie perché abbiamo pensato che qualsiasi selezione di immagini sarebbe stata in un qualche modo arbitraria, riduttiva e parziale. So che è una scelta opinabile, ma ben venga il confronto. Oltre a questo, l’inclusione di immagini avrebbe comportato un rincaro del prezzo al pubblico, mentre per noi era fondamentale far uscire un volume alla portata di tutti, specialmente degli studenti.

    Calvi 1976 © Eredi Luigi Ghirri

    Qual’era il rapporto tra parole e immagini nel processo creativo di Luigi Ghirri?

    È una domanda che richiederebbe una risposta molto lunga, perché è un rapporto complesso e a più livelli. La dimensione narrativa e speculativa per lui era molto importante, proprio perché concepiva la fotografia come un vero e proprio linguaggio visivo. Scriveva che per lui era quasi più importante il rapporto che esisteva tra le fotografie, piuttosto che le foto prese singolarmente. Lo stesso, se ci pensiamo, vale per le parole nella costruzione di una frase. Non solo: alcune sue fotografie contengono parole al loro interno (graffiti, insegne, scritte sui muri…), a volte creano delle cosiddette tautologie, altre invece mostrano l’esistenza di uno scarto tra realtà e rappresentazione. A un altro livello ancora, c’è l’influenza da parte delle parole di altri autori sulla sua formazione e sulla sua poetica. Tra i suoi preferiti troviamo Pessoa, Handke, Borges, Perec, la Sontag, e – uno su tutti – Bob Dylan.

    Questo libro è una summa importantissima dell’apparato testuale prodotto da tuo padre: testi delle sue mostre, suoi pensieri e teorie riguardanti il processo fotografico, interviste e conversazioni. Ma l’apporto testuale alla sua produzione fotografica è venuto spesso anche dall’esterno, anzi cercava lui stesso la collaborazione di artisti, fotografi, scrittori, curatori per strutturare un progetto anche dal punto di vista testuale. Gianni Celati, ad esempio, proprio dai suoi appunti di viaggio per Viaggio in Italia trasse il suo Verso la foce. Si può nominare, poi, tra tutti Arturo Carlo Quintavalle, ma anche Massimo Mussini, Franco Vaccari, Piero Berengo Gardin. La sua era un’idea di collaborazione creativa?
    Luigi viene descritto da tutti come una persona estremamente curiosa e aperta a contaminazioni esterne, anche da parte di altri linguaggi artistici. Leggeva moltissima letteratura e filosofia, ascoltava musica tutti i giorni, guardava tanto l’opera di altri artisti. Dunque credo che il desiderio di collaborare, di creare intrecci tra il suo lavoro e quello di altri, nascesse proprio da questa predisposizione verso l’esterno e dunque verso ‘l’altro’.
Cercava la condivisione di esperienze con artisti che nello stesso momento storico si trovavano a riflettere su tematiche comuni nei confronti del linguaggio, e del raccontare – o mappare – un territorio, instaurandovi spesso rapporti di grande amicizia. Non ho vissuto quegli anni, ma ho avuto l’enorme fortuna di ascoltare i racconti di chi c’era. L’immagine che ne ho tratto è quella di un gruppo di amici che, visti da fuori, nessuno avrebbe identificato come artisti. Persone di grande spessore culturale, e al contempo di incredibile semplicità e naturalezza. Poteva quindi capitare che un altro fotografo pubblicasse un libro e Luigi scrivesse il testo per il catalogo, e viceversa. Viaggio in Italia ed Esplorazioni sulla Via Emilia sono i due progetti che meglio testimoniano quel contesto. Due mostre e libri collettivi voluti da Luigi, con la presenza di tantissimi fotografi, non solo italiani, e scrittori tra cui Italo Calvino, Gianni Celati e Antonio Tabucchi.

    Engelberg 1972 © Eredi Luigi Ghirri

    La prima edizione del libro, pubblicata da SEI, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte, è del 1997, cinque anni dopo la morte di tuo padre. Come è nato quel libro?

    Il libro nacque per volontà di mia madre Paola insieme a Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte. 
Lei li aiutò a riunire tutti i manoscritti e le interviste, fu un lavoro molto impegnativo. Poi insieme pensarono a una sequenza di immagini da affiancare ai testi e Costantini scrisse il saggio introduttivo. Il libro uscì ma Luigi non era ancora molto conosciuto, per cui molte copie finirono al macero e non fu più ristampato. Oggi quella è un’edizione quasi introvabile, in archivio ne abbiamo una sola copia. Senza il loro lavoro questi materiali forse sarebbero ancora quasi del tutto sconosciuti, e se oggi possiamo trovarli in libreria, è anche grazie a loro.

    Secondo te questo libro, già nella sua prima edizione, può essere visto come un testamento creativo di tuo padre?

    Non so cosa definirei un “testamento creativo”, ma non credo possa essere visto come tale proprio perché un testamento viene lasciato per volontà dell’autore. Fatico a vedere i suoi testi come se fossero una sorta di documento per i posteri o un insieme di precetti da seguire alla lettera per interpretare il suo lavoro. Andrebbero forse visti come una mappa con indicati possibili percorsi di lettura attraverso la sua sterminata opera visiva, come uno strumento fondamentale per scoprire, o forse solo intuire, come è profondo il mare di immagini che ci ha lasciato.

    Atlante Modena 1973 © Eredi Luigi Ghirri

    Rispetto all’eredità che Luigi Ghirri ha lasciato al mondo, dal punto di vista fotografico, visivo, creativo, e rispetto anche al ruolo di padre della “scuola italiana di paesaggio” che il mondo gli ha riservato, qual è il suo lascito nell’intimità familiare?
    Scrivevo un paio di anni fa su un articolo per Artribune che l’assenza di mio padre è, nell’accezione più affettuosa del termine, incredibilmente ingombrante. 
Il suo lascito per noi familiari è enorme e leggero allo stesso tempo. Non ho alcun ricordo di lui, ma il vedere ogni giorno la sua opera è un continuo ricordarmi che Luigi è stato al mondo, ed è un modo per costruire un dialogo con lui nel presente, dialogo che non può che essere immaginario. L’ho conosciuto attraverso i racconti di altri, e principalmente – come molti di voi – tramite le sue fotografie. Trovo però che nella sua opera visiva siano silenziosamente contenuti molti dei valori e degli insegnamenti che un genitore possa trasmettere ai propri figli: gentilezza, stupore, equilibrio, cura, ironia, profondità, attenzione, apertura, chiarezza, luce. 
Credo che tutto questo si possa ritrovare anche tra le parole dei suoi scritti.

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