Raccontare per immagini un paese come il Giappone non è semplice, dato che le ovvietà stereotipate sono sempre dietro l’angolo. Nell’immaginario collettivo, il Giappone non è una nazione come tutte le altre, ma un ideale: la sua immagine, diffusa attraverso l’arte e la fotografia, è strettamente legata alle sue vicende storiche. Il Giappone rimase chiuso per più di due secoli a causa delle politiche della dinastia Tokugawa durante il periodo sakoku (鎖国), che iniziò con l’espulsione dei missionari cristiani intorno al 1640, per poi limitare il numero di porti aperti agli stranieri e infine vietare a qualsiasi giapponese di entrare o uscire dal territorio, pena la morte.

I primi fotografi occidentali come Felice Beato e Adolfo Farsari arrivarono in Giappone durante il processo di apertura forzata del paese, all’inizio del 1860. Le loro fotografie contribuirono alla costruzione della rappresentazione visiva e mentale di un paese fino ad allora quasi del tutto sconosciuto. Allo stesso tempo, il Japonisme nascente negli ambienti artistici europei cominciò a prendere il sopravvento, integrando a sua volta elementi iconici del continente giapponese. La rappresentazione bidimensionale del reale, la mancanza di chiaroscuri, il dinamismo esplicato attraverso la morbidezza delle linee accompagnate da un deciso taglio fotografico furono caratteristiche che influenzarono l’Art Nuveau.

Dal canto suo, la fotografia riadattò alcune tematiche alle proprie necessità: il Giappone venne descritto attraverso paesaggi fiabeschi, fanciulle in kimono e samurai con la spada, come bloccato in un’epoca che, nella realtà storica, si stava invece lasciando alle spalle quella fase. I soggetti venivano rivestiti della tradizione per soddisfare e portare avanti un’idea, estremamente retorica, che l’occidente si era costruito di questi luoghi. I fotografi, sia locali che stranieri, si approcciarono in maniera nostalgica a un Giappone che naturalmente stava scomparendo. Nel corso dei decenni, fino ai giorni nostri, queste rappresentazioni hanno plasmato un subconscio collettivo occidentale basato su tutta una serie di elementi lessicali che hanno contribuito a una percezione a volte distorta del Giappone.

Nicolas Boyer, nel suo libro GIRI GIRI gioca con la fotografia sulle immagini che provengono dal Giappone, attraverso molteplici archetipi sociali. Si tratta di una serie di cliché ricalcati su altri cliché dell’immaginario “esotico” che è stato costruito per oltre un secolo. Il fotografo, catturando momenti di vita quotidiana delle persone, riflette su una realtà complessa e in continua evoluzione.

Per questa serie, Nicolas Boyer ha preso spunto da una frase di Godard, che dice: «Tutti i grandi film di finzione tendono ad essere documentari, così come tutti i grandi documentari tendono ad essere finti. […] E quando si sceglie l’uno, si finisce inevitabilmente con l’altro alla fine della strada». L’artista, non ponendosi alcun obiettivo di oggettività, ha immaginato realtà possibili, ma sempre dipendenti dagli incontri avvenuti. Tutto sommato, le immagini più assurde di questo libro non sono necessariamente quelle meno reali. Nicolas Boyer, attraverso l’utilizzo di una visione fotografica coerente, riesce a presentarci visioni possibili di una realtà complessa.