
Curata da Barbara Silbe e Nadia Righi, la mostra, dal titolo Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine prodotta e organizzata dal Museo Diocesano di Milano, presenta una cinquantina d’immagini in bianco e nero e a colori che catturano i volti di quell’umanità nascosta e invisibile che popola le strade delle grandi metropoli dell’Europa e degli Stati Uniti.

Fotografo autodidatta, Jeffries inizia la sua carriera quasi per caso, nel giorno che precedeva la maratona di Londra del 2008 quando scatta una fotografia a una giovane ragazza senzatetto che sedeva all’ingresso di un negozio; rimproverato per averlo fatto senza autorizzazione, Jeffries si ferma a parlare con lei, a interrogarla sul suo passato, a stabilire un contatto che andasse al di là della semplice curiosità per scavare nel profondo dell’animo della persona che aveva di fronte. Da allora inizia a interessarsi e a documentare le vite degli homeless, passando dai vicoli di Los Angeles fino alle zone più nascoste e pericolose delle città della Francia e dell’Italia.

Grazie al suo sguardo e alla sua arte spirituale, come lui stesso è solito definirla, Lee Jeffries fa emergere le persone senza fissa dimora dal buio in cui sono reclusi e cerca di ridare luce e dignità a ogni essere umano. Il suo stile è caratterizzato da inquadrature in primo piano fortemente contrastate, e da interazioni molto ravvicinate con i soggetti, uomini e donne che vivono ai margini della società, incontrati per le strade del mondo. La sua cifra stilistica più caratteristica è quella del ritratto, sempre frontale e ravvicinato, spesso con sfondi monocromatici scuri che, elaborati con un efficace lavoro su luci e ombre, fa emergere i volti nella loro straordinaria potenza espressiva, capace di comunicare la loro sofferenza, il loro disagio e la loro condizione infelice.