Sullo sfondo di una Beirut in fiamme il progetto What’s Ours (2017-ongoing) della fotografa libanese Myriam Boulos emerge come caposaldo visivo della rivolta araba. Attraverso un linguaggio crudo e espressivamente graffiante la giovane autrice rivolge un preciso interrogativo ai suoi concittadini e, simultaneamente, a tutta la popolazione internazionale: quanto siamo disposti a rischiare per essere liberi?

La risposta di Myriam è evidente, intende mettersi in gioco personalmente per sconfiggere l’oppressione causata dagli anacronismi politici. Perciò immergendosi nelle contraddizioni sociali, nel proibito e nella provocazione dimostra di conoscere con esattezza la potenza sovversiva insita nello strumento fotografico. Per l’autrice la fotocamera deve essere adoperata in quanto arma di ribellione, un ordigno bellico puntato verso l’alienazione moralista e necessario a infliggerci un costante processo di messa in discussione delle nostre certezze. Ecco che le tumultuose atmosfere di Beirut diventano metafora dell’interiorità umana: un panorama utopico in cui luci taglienti, oscurità e pulsioni viscerali scandiscono le fasi tiranniche del mondo contemporaneo.

Fotogramma dopo fotogramma anche il corpo, vissuto con desiderio e indipendenza, reclama la sua centralità contemplativa. Tatuaggi, gestualità erotiche, soffocanti close-up di rapporti carnali travolgono il pensiero collettivo con un flusso inarrestabile di consapevolezza. In questo modo il ritmico coinvolgimento della presenza fisica viene innalzato a manifesto di sopravvivenza. In definitiva Myriam Boulos sfrutta uno storytelling d’assalto, esplicito e mai banale, per inchiodarci davanti a un coraggioso all-in introspettivo. Con estrema onestà riesce a sollevarci dal peso dei nostri schemi mentali per raccontare un atto di emancipazione totalizzante.