Il fotografo iraniano Ali Zanjani allinea sullo stesso piano fotografico identità, guerra e censura. Il suo è un lavoro politico e di rilettura sociale che sfrutta l’appropriazione di un intervento materico per spronare l’osservatore al ragionamento critico. L’operato di Zanjani può essere quindi analizzato partendo dal puntuale ragionamento affrontato da Susan Sontag nel 2003 in merito all’emotività universale.

“Military Makeup” (2018)
Tra le pagine del libro intitolato Regarding the pain of others la saggista americana dipinge la società moderna come amaramente affiliata da un’insanabile indifferenza empatiaca la quale, incentivata dalla perpetua intromissione dei media, spinge l’uomo ad affrontare con distacco il dolore collettivo causato dai dissidi politici. Pertanto la serie “Military Makeup” sembra partire da questo concetto disfattista per poi estremizzarlo semioticamente. Qui la sofferenza non viene raccontata come unicamente prodotta dallo strazio fisico, bensì diventa tortura incorporea e psicologica.

“Military Makeup” (2018)
All’atto pratico l’autore si impossessa delle immagini prodotte dallo Studio Kia di Tehran poiché attratto dalla loro estrema singolarità storica. Di fatto, nel piccolo archivio di fototessere il Sig. Arbab (scomparso nel 2005) ha lungamente distorto, durante il processo di stampa, l’aspetto finale dei suoi soggetti. Utilizzando un pennarello colorato la sconveniente pettinatura sfoggiata dai giovani militari, ribelli e in posa per il suo obiettivo, veniva occultata da un’apparente integrità formale. Zanjani tratteggia quindi un viaggio culturale articolato seguendo 11 ritratti: sguardi straniati, pose austere e divise belliche appaiono ritmicamente racchiusi in un unicum visivo abile a evidenziare il rapporto conflittuale dei soldati iraniani con la rigidità delle acconciature istituzionali.
Il gesto di Ali Zanjani si snoda intorno a un’operazione di editing intenzionale ed efferato, in grado di attribuire senso e visibilità a una scatola di negativi dimenticati per trent’anni. Sono dunque tematiche come l’omologazione e l’appartenenza che, cristallizzate in ciascun fotogramma, scompongono la banalità ritualistica del taglio di capelli elevandolo a sinonimo di castrazione etno-identitaria.