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    Incantesimi adolescenziali

    Hellen van Meene esplora il tema dell'adolescenza e delle sfide che essa porta: figure giovanili, volti di porcellana e sguardi enigmatici

    Il meccanismo oculare della macchina fotografica può essere paragonato al concetto di terzo occhio spirituale. Esso, con un pizzico di fantasia figurativa, costituisce il punto esatto, sulla fronte dello stesso strumento, dove la biforcazione visiva antropica, propriamente di attribuzione fisica, confluisce in un unico apparato percettivo. Allorché il nostro senso più importante si svincola dal suo procedimento biologico per consentirci l’immersione in un mondo fatto di espressionismi sconosciuti.
    Percorrendo il richiamo ancestrale di questa caratteristica astratta prende campo l’eventualità teoretica di uno sconfinamento sensoriale: la nostra mente si troverà invischiata in una dimensione pseudoscientifica dove magia e realtà si sovrappongono. Così facendo i grandi temi esistenziali cedono il passo alla perpetua iperbole allucinatoria dei loro significati concreti. Ed ecco che, nell’odissea dell’umanità, Hellen van Meene accoglie il forte richiamo dei nostri fantasmi interiori per interrogarsi sulla condizione adolescenziale. Influenzata dal folklore olandese e dalle fiabe per bambini Hellen incide su pellicola le ansie soffocanti e le inquietudini sentimentali insite nella crescita. Pertanto, le figure ingenue di ragazzine dal volto di porcellana, intrappolate in eleganti crisalidi costumistiche, appaiono agli occhi dell’osservatore in tutto il loro mistero giovanile, pronte a farsi inghiottire da un vortice di incantesimi evolutivi che le condurrà alla vita adulata. Mentre le loro pose ingessate, oltremodo enigmatiche e intrise di manierismo fiammingo, sintetizzano un’ambivalenza narrativa fatta di rivelazione iconografica e menzogna contenutistica. In aggiunta, l’utilizzo ossessivo di simbolismi pagani, inseriti in scenari spettrali, prodotto di un’estetica della decadenza, e i continui riferimenti religiosi dipingono delle atmosfere dal sapore onirico.
    Hellen van Meene sembra dunque servirsi di elementi naturali, tra cui fuoco e acqua; ma anche animali e oggetti di scena come ancoraggi propiziatori, abili a glorificare l’abbandono della fanciullezza.  Il suo approccio non vuole essere critico, né tantomeno viziato da reminiscenze infantili; bensì risulta simile a quello di una madre spirituale, intenzionata a mitigare le difficoltà delle sue amate creature attraverso un rito di purificazione fotografica. Una dolcezza amara che tuttavia, negli “untitled” di Hellen, strizza velatamente l’occhio al perfido potere attribuito, dalla società di metà Ottocento, al cambiamento rappresentativo offerto dall’immagine latente: piccole prigioni per l’aldilà adatte a impossessarsi dell’anima dei soggetti. Nel caso di Hellen van Meene però a essere sequestrato non è un agglomerato di instabilità molecolare come lo spirito ma il corpo fisico delle modelle. Un dettaglio operativo che le permette di trascendere l’individualismo autoriale e collocare i suoi scatti in un contesto meta-ritrattistico, dove il soggetto viene elevato a oggetto di culto.

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