La fotografia, fin dalla sua creazione, ha esercitato una funzione dominante nei conforti di tutti quegli avvenimenti identificati, per praticità dimostrativa, come appartenenti alla dimensione “reale”. La sua natura meccanica possiede l’efferata facoltà di ingannarci attraverso una narrazione apparentemente esaustiva, a sua volta condita da un’indefinibile veridicità fattuale. Tutto ciò risulta possibile poiché, per merito del suo funzionamento tradizionale (non stiamo qui indagando le numerose modalità produttive offerte dall’intelligenza artificiale), a differenza della pittura, essa presuppone un’immediata trasposizione formale di elementi concreti. Dunque, per la società D.D. (Dopo Daguerre) il “cogito ergo sum” di Cartesio può essere rielaborato come “fotografiamo quindi siamo”, permettendoci di asserire che il medium fotografico è ben capace di plasmare le nostre conoscenze storiche in funzione di una significativa aspettativa iconografica.
Tuttavia, analogamente al suo creatore, anche la fotografia è capace di mentire, allora l’integrità del concetto di “rappresentazione” viene messa in discussione; ne deriva un dubbio interpretativo che ha lo scopo di rendere legittima la scelta autoriale a discapito dell’obiettività.

03.00 hours | “Diary of a Victorian Dandy”, 1998
Ecco che l’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare impiega questa enigamticità concettuale per restituire all’osservatore una personale ricostruzione della nobiltà Vittoriana. In Diary of a Vicotrian Dandy (1998) Yinka veste i panni di un rampollo elegantissimo per mettere in scena, sotto forma di ingombranti tabelau-vivant (180×230 cm), una duplice analisi politica. Da un lato la figura dell’annoiato dongiovanni, dedito a eccessi e sconsiderata ostentazione sintetizza l’autentico decadimento di un’epoca storicamente controversa; mentre i suoi evidenti tratti etnici scavano nel profondo della morale collettiva riportandone alla luce le disparità razziali. L’obiettivo della macchina fotografica segue lo stesso Yinka in una tipica giornata da damerino, circondato da privilegi economici e sessuali, nonché caldeggiato da un’adorante schiera di domestici dalla pelle chiarissima. Ed è attraverso quest’ultimo dettaglio che l’autore, senza mezzi termini, rende la sua posizione ancora più inconfutabile: intende sostituirsi ai suoi carnefici per provocare uno scompenso simbolico, abile a distruggere i cliché e gli episodi discriminatori associati alla comunità nera. Pertanto possiamo pensare ai cinque fotogrammi della serie come a una dichiarazione d’indipendenza visiva grazie alla quale Yinka Shonibare inverte il flusso degli eventi restituendo potere e orgoglio a chi per secoli è stato prigioniero dell’emarginazione.