Gian Paolo Barbieri, uno dei più grandi maestri della fotografia di moda e non solo, nel corso della sua carriera non si è limitato a realizzare immagini avvincenti e artisticamente innovative. Continuando a plasmare la sua visione del reale, ha anche spronato gli osservatori a riconsiderare il loro rapporto con il mondo e il loro posto al suo interno. Lo abbiamo intervistato.
Diventare un fotografo è sempre stato un suo desiderio?
Non avevo mai pensato di fare il fotografo, non ho mai studiato fotografia. La mia aspirazione più grande era diventare attore, ma la fotografia accompagnava sempre le mie giornate impegnate al rifacimento delle pièce teatrali, dei romanzi o del cinema insieme al Trio, gruppo fondato da me e dai miei amici. Sperimentavo l’utilizzo della luce e cercavo di imitare ciò che vedevo nel cinema noir.

Allora come è iniziato il suo percorso nella fotografia?
Sicuramente quel periodo della mia vita, di cui parlavo poco fa, è stato fondamentale: mi condusse a Roma dove avrei voluto fare cinema. Per guadagnarmi da vivere facevo le foto alle starlette di Cinecittà e alla sera sviluppavo la pellicola, nella pensione dove soggiornavo. Poi Gustave Zumsteg, proprietario di Abraham Tessuti, vide le mie foto. Conosceva mio padre, mi chiese di fargli vedere le fotografie e, nonostante io le considerassi totalmente amatoriali, gliele feci vedere e mi disse: «Tu hai una sensibilità pazzesca e sei tagliato per fare la fotografia di moda». Rimasi sorpreso, non sapevo neanche cosa fosse la moda. In Italia non esisteva ancora, le riviste compravano dei servizi fotografici già pronti, confezionati dalla Francia. Rimasi con questa idea nella testa e tornai a Milano, con la voglia di iniziare a lavorare nella fotografia di moda; il caso volle che ricevetti una lettera che comunicava di presentarmi alle 11 del mattino a Parigi, da Kublin, fotografo che lavorava per Harper’s Bazaar, a cui avrei fatto da assistente per fotografare le collezioni. Furono i venti giorni più duri della mia vita, dove però imparai tutto sulla fotografia e sulla moda. Un altro momento decisivo per la mia vita fu sicuramente la scelta di non accettare l’invito di Diana Vreeland di andare a lavorare per Vogue America: non esitai molto, anche se a volte mi sono chiesto come sarebbe andata se avessi accettato. Poi negli anni Ottanta ci fu un altro cambiamento molto significativo per la mia carriera: quando il signor Sartori morì, subentrò al suo posto la signora Sozzani, che prese in mano le redini di Vogue Italia dando maggiore spazio ai fotografi stranieri e lasciando nella penombra quelli italiani. Fu durante quel periodo, durante quella crisi italiana della fotografia di moda, che mi spinsi a ritrovare me stesso. Riuscii per la prima volta dopo tanti anni a fermarmi e chiedermi davvero cosa volessi. Così mi allontanai, rifugiandomi nei mari del Sud dove sviluppai le mie ricerche personali attraverso lo studio delle popolazioni locali con cui entravo in contatto, ritrovando anche il contatto con la natura. Questo mi aiutò a salvarmi.

Come si è evoluto il suo ideale estetico nel tempo?
La mia cifra stilistica si è creata da sé, non perché l’abbia mai realmente ricercata. È semplicemente nata perché da sempre amo l’arte, in tutte le sue declinazioni. È stato un processo molto naturale. Fin da piccolo l’ispirazione al teatro e al cinema furono una spinta importante. Poi leggendo tanto, studiando l’arte classica, guardando ai maestri del passato o semplicemente guardandomi intorno e prendendo spunto da ciò che si animava intorno a me, sviluppavo il mio occhio artistico. Immaginavo e disegnavo nella mia mente ciò che avrei voluto fosse il risultato del servizio, costruivo i miei set in maniera impeccabile, sempre con una citazione, più o meno esplicita, all’arte, al cinema o all’architettura.
Nelle sue fotografie, dallo still life alla moda, queste molteplici influenze artistiche generano immagini senza tempo. Quale tipo di sguardo lei richiede all’osservatore?
In realtà non mi sono mai domandato cosa volessi dallo spettatore, sentivo solo il bisogno di realizzare una fotografia che fosse in grado di sedurre, che scoprisse l’occhio dell’anima, tracciando il viaggio attraverso il proprio io.
Riguardando oggi tutto il suo lavoro nel complesso, quale visione del mondo pensa di aver comunicato?
Penso semplicemente di essere un anello della catena di quella generazione che sta sparendo. Abbiamo raccontato un mondo diverso, un mondo che ha contribuito a creare quello che oggi viviamo, attraverso un modo di fotografare e di pensare che probabilmente andrà perso. Un mondo che potrebbe essere migliore, forse, se non avessimo commesso alcuni errori. La mia è stata una visione di ciò che vivevo, cercavo di rendere di tutti il mio sguardo.
La pandemia ha stravolto in maniera sostanziale le nostre vite e il concetto stesso di libertà. Come evolverà la fotografia dopo questa esperienza?
In questo periodo storico che ha spiazzato tutto il mondo, la fotografia è riuscita ad aggiungere un’immagine a qualcosa che era solo una sensazione, un grande schermo nero indecifrabile. È andata oltre lo spazio e il tempo ed è riuscita a modellare una verità visiva propria di tutti. È questo il compito della fotografia, il ruolo dell’arte in generale: dare voce a qualcosa che trova difficoltà ad averla. Ed è così in tutta la storia. La pandemia ha segnato un punto nella nostra storia e la fotografia ne ha plasmato uno sguardo. La fotografia non cambierà la sua natura, sarà sempre portavoce della realtà che vive.

Qualche anno fa a Milano ha dato vita alla sua Fondazione. Cosa l’ha spinta ad andare in questa direzione?
Ero arrivato a un certo punto della mia vita in cui non avevo idea di quanto materiale avessi raccolto nel corso degli anni: ai miei occhi sembrava infinito. Il confronto e il supporto con Emmanuele Randazzo, il Direttore della mia Fondazione, mi fece fermare e realizzare quanto avessi lavorato. Il suo suggerimento mi portò a ragionare sul fatto che fosse necessario valorizzare l’Archivio perché, al di là del mio lavoro, custodisce sessant’anni di storia della cultura italiana e volevo che divenisse parte di un patrimonio culturale fruibile da tutti.
Ci sono nuovi progetti a cui sta lavorando con la Fondazione?
La Fondazione è attiva in particolare su diversi progetti, sempre orientatati agli obiettivi che persegue. Stiamo lavorando alla realizzazione del Premio Gian Paolo Barbieri, in collaborazione con CZ Fotografia, volto alla valorizzazione di giovani talenti. Inoltre stiamo seguendo un progetto editoriale, Polaroids and Notebooks in collaborazione con CZ Fotografia, che racchiude una selezione di opere polaroid (formati 4×5, type 100 e 20×25 per citarne alcuni, formati che sono ormai fuori produzione), che ripercorrono, attraverso scatti famosi e molti inediti, la mia ricerca artistica. C’è anche il documentario sulla mia vita, realizzato in collaborazione con la casa di produzione Moovie, creato e diretto da Emiliano Scatarzi, un mio ex assistente, ormai regista. Un racconto abbastanza intimo, che permette di attraversarla e osservare un mondo di cui sono stato testimone. Infine abbiamo in programma una serie di progetti espositivi a Venezia, Napoli, Roma, le Marche, altre città e terre in cui ancora non sono mai stato, nelle quali vorremmo sperimentare l’accostamento di tematiche diverse e raccontare il mio lavoro, anche con degli inediti della mia attività creativa.