di Maya Ben Frej
Anna Di Prospero nasce a Roma nel 1987. Studia fotografia all’Istituto Europeo di Design di Roma, dove vince una borsa di studio, e in seguito alla School of Visual Arts di New York. La sua ricerca fotografica, profondamente introspettiva, indaga il rapporto tra uomo e spazio. Il 2008 è l’anno in cui viene inaugurata la sua prima mostra personale all’interno del Fotografia-Festival Internazionale di Roma, occasione che le permette di presentarsi al panorama espositivo internazionale e da cui segue la partecipazione a numerose mostre personali e collettive in Italia e Stati Uniti, tra cui Les Rencontres D’Arles, Month of Photography a Los Angeles e La Triennale di Milano. L’abbiamo intervistata.

Quando hai avvertito la necessità di lavorare sulla tua identità? Perché hai scelto la fotografia?
Ho iniziato a dedicarmi alla fotografia nel 2007, quando mi sono trasferita nella casa dove ho realizzato la mia prima serie: Self portrait at home. La fotografia mi ha aiutato ad entrare in contatto con quello spazio, che inizialmente mi era sconosciuto. La mattina prendevo la fotocamera e il treppiedi, allestivo i miei set, dopodiché guardavo le fotografie e le post-producevo per poi condividerle su Flickr. L’autoritratto mi ha aiutato a vivere, anche in maniera performativa, delle situazioni personali che non mi erano chiare. Per me è davvero uno strumento di ricerca su me stessa, immersivo al punto che mi permette di avere un distacco totale da ciò che ho attorno.
So che c’è una storia molto curiosa che ti lega a questa rivista, vuoi raccontarcela?
Nel 2007 avevo appena iniziato a pubblicare le fotografie su Flickr; un giorno ricevo un messaggio di posta sul sito nel quale un utente mi scrisse: “Ho visto le tue foto sul sito di Repubblica, sono molto belle. Ti va di fare una mostra durante la notte bianca?’’ firmato Walter Veltroni. Quando lessi il messaggio pensai subito a uno scherzo, lo ringraziai ma aggiunsi che non pensavo potesse essere davvero lui; mi rispose dandomi il numero del Campidoglio e la sua mail personale, scrivendomi di contattarlo così da poter verificare chi fosse realmente. Provai a mandare una mail che tornava puntualmente indietro, mentre al Campidoglio non rispondevano mai, quindi pensai di nuovo che fosse stato tutto uno scherzo. Diversi mesi dopo, un mio amico acquistò una copia di Rolling Stone e, sfogliando il giornale, trovò un’intervista a Walter Veltroni riguardo le primarie del Partito Democratico, dove raccontò questa storia capitata con me. Se quel giorno il mio amico non avesse acquistato quel numero di Rollling Stone, non saremmo qui oggi.
Dopo questo partciolare episodio, feci di tutto per ricontattarlo, e successivamente mi invitò a fare una mostra per il Fotografia-Festival Internazionale di Roma. Questo avvenimento lo considero come quello dell’inserimento all’interno delle gallerie d’arte e la fotografia di ricerca.
Osservando il tuo lavoro è evidente quanto lo spazio e l’architettura influiscano nella costruzione delle immagini. Qual è stata l’evoluzione del tuo lavoro in merito a questo aspetto?
Tutto è sempre stato influenzato da questo pensiero: il modo in cui percepiamo un luogo è una proiezione di ciò che abbiamo dentro, le nostre esperienze, la nostra personalità, il nostro bagaglio culturale. Questo aspetto mi ha sempre affascinata e ho continuato a esplorarlo nella casa dove andai a vivere, poi nella mia città e in seguito viaggiando tra l’Europa e gli Stati Uniti per instaurare questo rapporto tra corpo, spazio e interazione.
La fotografia è sempre stata un mezzo per entrare a contatto con lo spazio sconosciuto. I primi anni sono stati un divenire dove tutto è stato fluido e spontaneo.

La serie Self-portrait with my family ha modificato il rapporto con i tuoi familiari?
Questo progetto ha accresciuto il nostro rapporto, non l’ha modificato. Li ho resi partecipi di quello che era il mio mondo che inizialmente non comprendevano e sostenevano.
Grazie a questi lavori, ho anche scoperto aspetti sconosciuti dei miei familiari. Abbiamo messo in scena il nostro rapporto studiando insieme ogni dettaglio della fotografia, il gesto, il luogo e cosa indossare. È stato un percorso di arricchimento e la rappresentazione di quello che era il mio nucleo familiare più stretto in quegli anni.
Quali sono i personaggi che più hanno segnato la storia della tua vita e il tuo percorso?
L’incontro virtuale con Walter Veltroni e l’incontro con Giorgia Fiorio avvenuto durante la Reflexios Masterclass, l’esperienza a livello di formazione più importante della mia vita. Un altro avvenimento che ha influenzato il mio percorso è stato vedere la personale di Gregory Crewdson nel 2006. È l’unico fotografo che ho come riferimento, la mia stima per il suo lavoro immensa. In lui ho ritrovato la fotografia a cui aspiravo in quegli anni.
Gli ultimi due anni non sono stati certo semplici; come li hai vissuti in quanto artista?
Le chiusure dei musei, delle fiere d’arte e la sospensione di tutti gli eventi espositivi hanno bloccato gran parte del mio lavoro. Ciò ha creato necessariamente una pausa, questo tempo mi ha aiutata a riflettere e fare delle considerazioni sul mio percorso passato e futuro. Dal punto di vista creativo ho portato avanti i miei lavori di ricerca e ho preso parte al progetto With Italy, For Italy, voluto da Lamborghini.
Qual è il tuo rapporto con i social?
Le limitazioni sociali di questi ultimi due anni ci hanno spinto a ritrovarci sui social e questa cosa è diventata nociva per la mia creatività. Questo periodo mi ha portata ad allontanarmici e vivermi di più la realtà. Ora inizio a non trovarlo più un mezzo adatto alla divulgazione del mio lavoro. Vorrei creare e produrre contenuti esclusivamente per la mia ricerca, non per doverli pubblicare.
Si dice che la fotografia sia come una divisa, non la si toglie mai di dosso; quanto spazio occupa la fotografia nella tua vita?
È un pensiero costante. Non c’è giorno che io non passi pensando alle mie fotografie e all’organizzazione del lavoro, cercando di trovare la mia ispirazione progettando i prossimi passi.
Lo spazio mentale che dovrebbe occupare è lo stesso di quando ami una persona; alle persone di cui sei innamorato pensi costantemente, no?
Il giorno che non penserò più in maniera così assidua alla fotografia, quasi come fosse un’ossessione, penso che forse smetterò.
Come ha influito la nascita di tuo figlio nel tuo lavoro?
Prima ero estremamente incentrata su me stessa e sul mio lavoro.
È fondamentale dedicare il tempo alla ricerca e alla progettazione.
Ora sono pochissimi i momenti in cui riesco ad avere la concentrazione mentale per immergermici completamente. Nonostante ciò, non voglio che questa mancanza vada a influire sul rapporto con i miei figli. Penso sia un passaggio naturale che affrontiamo tutti, il cambiamento non è per forza negativo, è anche un arricchimento. Questa è una fase di assestamento che vivo con consapevolezza e tranquillità.

In quale serie ti riconosci di più e quale invece pensi sia la più riconosciuta nella tua carriera?
Le serie in cui mi riconosco di più fanno parte del progetto Beyond the visible. Sono venute fuori in maniera inconscia, come se fossi solo il tramite.
Avevo l’esigenza di slegarmi dalla progettazione e ritrovare la spontaneità con il mezzo fotografico. È stato un lungo e bellissimo percorso di introspezione e sperimentazione fotografica. Invece, l’autoritratto con mia madre è la foto con più riconoscimenti e che più mi rappresenta. È una foto che vive di vita propria, è un rapporto di odio e amore il nostro.
In che modo finisce una serie e ne inizia un’altra?
Ci sono state delle serie in cui sapevo già di preciso quante fotografie dovessi realizzare, come realizzarle e come dovessero concludersi. Altre invece si sono sviluppate in divenire: Sono iniziate non sapendo quante fotografie avrebbero composto la serie, portando avanti il lavoro finchè l’ho sentito mio.
Senti di aver lavorato a una sorta di riconciliazione tra il mondo e lo spazio in cui ti trovi?
Prima o poi arriva la necessità di comprendersi e capire chi siamo realmente. La fotografia è stata un mezzo per entrare a contatto con la mia parte interiore. Non c’è limite di età né un momento più idoneo per la ricerca. I mezzi per svolgerla e per trovare un balance tra interno ed esterno sono tantissimi.
A cosa ti stai dedicando ora? Obiettivi futuri?
Oggi più che mai sento la necessità di uscire, incontrare persone e ritrovare quella dimensione che abbiamo perso. In attesa della totale ripresa delle mostre e delle attività espositive mi occupo della parte progettuale del mio lavoro. La costante sono i lavori fotografici di ricerca che sto continuando a produrre, lo switch sarà il momento in cui me ne libererò, lasciandoli andare e mostrandoli ad altri. Non so che direzioni prenderò in futuro. Spero di avere un’evoluzione continuando a crescere e raccontarla attraverso il mezzo fotografico… Forse potrei anche trovare un altro equilibrio, chissà.