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    La memoria dell’intimità

    Le fotografie vengono considerate un rimedio alla nostra scomparsa terrena. Per descrivere l’azione di cui esse sono il prodotto finito usiamo parole come “immortalare”, “congelare”, “imprimere”, convinti di poter padroneggiare un’illusoria abilità nell’ingannare il tempo. Ma cosa resta veramente di quei momenti?
    Il corpus lavorativo di Nan Goldin, ripercorso magistralmente da Laura Poitras nel documentario intitolato “All the beauty and the bloodshed” (Leone d’Oro come miglior film alla 79° edizione del Festival del Cinema di Venezia), mi ricorda ogni volta quanto le immagini siano un mezzo capace di trasmettere emozioni e non una fatiscente prigione bidimensionale. Come afferma la stessa Goldin durante lo struggente soliloquio che accompagna l’intera visione del film, le immagini, per natura, sembrano escludere dal loro racconto profumi, suoni, fisicità. Tutte sensazioni presenti al momento dello scatto, appartenenti all’irrefrenabile compiersi della realtà e destinate a trasformarsi in memoria individuale. Una memoria tuttavia eretta sul concetto radicale di intimità descritta e non più vissuta e che, attraverso l’ambiguità iconografica, si apre alla collettività diventando linguaggio universale.

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