Se per il progetto di residenza d’artista, nel 2017, l’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, aveva fatto dialogare il proprio corposo archivio fotografico con il linguaggio intellegibile di Nicola Nunziata, portando alla creazione di Album, un ritratto sfaccettato e complesso del concetto di archivio; nel 2019 è stata la volta di Mario Cresci, con il suo processo di contaminazioni artistiche, che, a differenza di Nicola, si è messo in relazione con uno specifico fondo dell’Istituto, quello di Mario Nunes Vais.

Se per Nunziata si è trattato di un lavoro che ha identificato l’archivio dell’ICCD come uno stratificato concetto su cui avviare un’indagine a più livelli, rivelandone le specificità del processo archivistico più che le autorialità racchiuse al suo interno; Mario Cresci si è concentrato, invece, ad armonizzare la propria ricerca sul segno grafico con una specifica produzione autoriale, quella di Nunes Vais. In entrambi i casi la “connotazione archivistica” dell’archivio dell’ICCD è sempre risultata il faro del progetto, ben salda ed evidente, con Nunziata più trasversalmente, con Cresci più figurativamente.

Se, in un certo senso, in entrambi i casi l’autorialità dei due artisti è emersa in virtù di una relazione con un patrimonio visivo, quello dell’ICCD per l’appunto, ben distinguibile e definito non è andata propriamente così per la residenza d’artista di Joan Fontcuberta, che ha dato i lumi alla mostra Cultura di polvere, esposta a via di San Michele 18 fino al 29 settembre, a cura di Francesca Fabiani. L’esposizione si compone di una serie di ligh box in cui l’apparente astrattezza di quelli che sembrano dei paesaggi altro non è che il risultato del logorio e della corrosione del materiale negativo, appartenente al fondo Chigi, da parte di alcune colonie batteriche. L’artista spagnolo, attratto anche dall’essenza organica e materiale della fotografia, ha selezionato un frammento del negativo rovinato ingrandendolo e facendolo diventare altro rispetto all’originale.

Joan Fontcuberta è un autore altamente caratterizzato dalla sua ricerca trasversale sulla natura dell’immagine, una ricerca che è solita portare alla luce le implicazioni tecnologiche, linguistiche e anche organiche della fotografia, la sua veridicità di rappresentazione, il labile confine tra realtà e finzione e le distorsioni che ne derivano anche sul piano della sua comunicazione. Un artista che scandaglia, deforma e, in alcuni casi, anche cancella le fondamenta di un’immagine, perché la sua indagine è finalizzata a quello, ad una manipolazione che mette in discussione la natura fotografica e che si manifesta più nel proprio processo di “distruzione” che nel risultato finale, nell’opera finita. Per questo motivo Cultura di polvere, e il suo autore, si distingue dalle due residenze precedenti, perché in essa l’archivio dell’ICCD, la sua presenza fisica e figurativa, la sua riconoscibilità, è cancellata, per volontà di Joan Fontcuberta. Questo era il suo intento iniziale e questo ha fatto.

Presentandosi agli albori della residenza con questa domanda: «Avete del materiale fotografico degradato?» mise le basi per una produzione già chiaramente delineata secondo tale idea, quell’idea che anima la sua mente creativa da molto tempo. Il fondo prescelto risultò quello di Francesco Chigi, il principe Francesco Chigi Albani della Rovere (1881 – 1953), uno di quegli aristocratici che utilizzò, da autodidatta, il mezzo fotografico per immortalare non tanto la società che gli stava attorno, come invece fece il conte Primoli, ma una realtà privata, familiare. Ma è sbagliato anche inserire Chigi in quei “comuni” fotoamatori di inizio XX secolo che fotografavano la propria famiglia e i viaggi in giro per il mondo, immersi nella bolla del proprio agio e delle proprie ricchezze. Chigi fu, invece, un attento precursore in ambito fotografico, collezionista di importanti attrezzature fotografiche, oggi esposte nella sala museale dell’ICCD, grande appassionato di ornitologia tanto da fondare l’Osservatorio ornitologico di Castel Fusano, attento osservatore e documentarista della natura con cui il suo mondo veniva in contatto, dagli uccelli ai boschi, dalle campagne ai suoi giardini, studioso dei fenomeni naturali amava fornirsi di macchinari fotografici che gli permettessero una documentazione scientifica e precisa, oltre che essere uno tra i primi in Italia a realizzare autocromie servendosi delle lastre brevettate dai fratelli Lumière nel 1904 ed essere un così attento conoscitore della natura fotografica da spingersi nelle prime sperimentazioni compositive.

Il fondo Chigi è talmente ricco e carico di significati, anche rispetto alla più vasta storia della fotografia, che scoprirlo solo in funzione della casuale presenza, al suo interno, di materiale degradato risulta un po’ riduttivo, soprattutto considerando il fatto che, probabilmente e paradossalmente, mai “incontro visivo”, tra due autori, è stato più azzeccato di quello tra Joan Fontcuberta e Francesco Chigi. Il caso può bastare? E se il materiale archivistico rovinato fosse stato quello di un altro fondo, il cui autore non fosse stato anche lui un attento estimatore e studioso della natura dell’immagine quanto lo fu il principe Chigi, anche e soprattutto per le implicazioni organiche, biologiche e di veridicità con il reale di cui le sue fotografie erano impregnate? C’è da dire che il risultato di Cultura di polvere rende ottimamente l’idea sia del processo di “cancellazione” materica dell’originale, focus dell’intera azione artistica di Fontcuberta, sia del fatto che pur “cancellando” l’immagine originale, su cui si stagliano i nuovi paesaggi batterici, l’autorialità del fondo non scompare del tutto, perché, fortunatamente, l’idea di tale smaterializzazione e di una sperimentazione tramite essa, sono in linea con il pensiero fotografico dello stesso Chigi.

In generale, se si parla di un’arte di appropriazione, arte spesso praticata da Joan Fontcuberta, non per forza devono comparire le tracce dell’autorialità primigenia, anzi. L’opera finale non può essere vista come un semplice intervento artistico su un materiale preesistente. La paternità appartiene assolutamente all’artista che ha ricreato la materia. Ma se la residenza comprende un dialogo visivo tra due “agenti”, anzi tre se si considera anche l’autore del fondo, forse, il patrimonio che ha generato l’opera dovrebbe essere, volutamente, maggiormente intellegibile nelle stratificazioni di significato dell’opera stessa. Ma ora siamo qui a riflettere sul processo di Fontcuberta, non tanto sul risultato del suo intervento, e questo mi fa porre un quesito: forse, a questo puntava l’artista di Barcellona? Sarà forse la sua ennesima provocazione? In fondo, siamo qui a discutere proprio dei suoi temi caldi: autorialità e veridicità di rappresentazione. Ben fatto Joan Foncuberta, ci siamo cascati anche questa volta.