Era il 1871 e Roma era appena diventata Capitale d’Italia. A raccontarne i 150 anni una grande e ricca mostra a Palazzo Braschi, Roma. Nascita di una capitale 1870-1915, fino al 26 settembre. A suggellarne le gesta dipinti, plastici, cartine topografiche, cartoline, manifesti, locandine, riprese filmiche ed anche fotografie. Tra queste ultime spicca l’allestimento immersivo delle immagini del Conte Giuseppe Primoli, che a cavallo tra il XIX secolo e il XX secolo immortalò, con uno stile che sapeva di modernità e progresso, la nuova Capitale d’Italia. Tra le sue immagini si vedono i greggi di pecore portati a pascolare a quella che ora è via del corso, quando ancora la Roma metropolitana non esisteva, era in procinto di diventarlo, e Primoli riuscì, attraverso le sue fotografie, a testimoniarne il passaggio epocale. Ma il Conte non fu solo il fotografo degli esordi di Roma Capitale, della sua espansione urbanistica, ma anche soprattutto fu l’occhio ufficiale della Roma mondana, della socialità che animava i salotti dell’alta nobiltà romana e che andava all’ippodromo di Capannelle ad assistere alle corse dei cavalli, degli eventi pubblici della città come Il Circo di Buffalo Bill al Circo Massimo o il Torneo Storico a Villa Borghese, documentò le inondazioni del Tevere prima della costruzione dei muraglioni, oltre a ritrarre come appunti visivi gran parte delle feste dei Palazzi. Ma la vita di Primoli, fu storicamente e personalmente complessa. Ce la facciamo raccontare dalla prof.ssa Ludovica Cirricione d’Amelio e Valeria Petitto della Fondazione Primoli, curatrici del libro Abbastanza straniero per visitare Roma, abbastanza romano per capirla. Memorie di Roma (1871-1879), pubblicato recentemente da tab edizioni. Primoli prima di essere un notevole cronista visivo della vita romana, fu un intellettuale con la passione per la scrittura e fin dai suoi primi anni francesi era solito annotare nei suoi diari le sue memorie. In questo libro, che parla specificatamente dei suoi anni a Roma, si può scorgere il suo rapporto conflittuale con la città, lo sguardo sempre nostalgicamente rivolto alla sua Parigi, ma anche la meraviglia davanti al patrimonio artistico che la nuova capitale offriva ai suoi occhi.

Giuseppe Primoli, Duello di donne a Villa Doria – Pamphilij davanti al Casino del bel Respiro, Roma, 1890 circa © Fondazione Primoli
Chi era il Conte Giuseppe Primoli?
Come dice il titolo del libro Abbastanza straniero per visitare Roma, abbastanza romano per capirla Primoli non è completamente italiano e come sostiene lui «è soprattutto un Bonaparte». La sua formazione fu francese perché durante il Secondo Impero tutti i Napoleonidi si avviarono alla Corte Imperiale e Primoli venne educato alla scuola francese, parlando francese, l’italiano, inizialmente, lo sapeva poco. La sua vita in Francia fu idilliaca, una vita di fasti, seguendo quelli dell’Impero. La maggiore fautrice della sua identità cosmopolita e culturale è stata sua zia Mathilde Bonaparte, che lo inoltrò, molto giovane, nella cerchia di scrittori, artisti ed intellettuali che animavano il suo “salotto” parigino e la sua casa di campagna durante l’estate. Quando crollò l’Impero, e tutti i Bonaparte furono costretti a fuggire da Parigi e tornare in Italia, la vita di Primoli cambiò totalmente, ritirandosi con i genitori ad Ariccia per un anno come per sfuggire alla società, e trasferendosi l’anno seguente a Roma. Arrivato nella nuova Capitale d’Italia nel 1871 e perennemente ancorato al ricordo nostalgico della Francia, visse un rapporto molto conflittuale con la città, che si sanerà negli anni soltanto attraverso la visione del Bello racchiuso a Roma. Attraverso il suo patrimonio artistico Primoli si conciliò con Roma, ricca di ricordi del passato, tanto da affermare «Io a Parigi ho più ricordi e a Roma ho più memorie».

F. Berthier, Mathilde Bonaparte © Fondazione Primoli
La situazione politica a Roma era molto effervescente dal 1870 in avanti. Primoli, però, con la sua scrittura si concentrò quasi esclusivamente sulla vita mondana della Capitale di quegli anni. Perché?
Primoli non era un apolitico, a lui semplicemente interessava esclusivamente la politica francese. Volutamente si mantenne lontano dalla politica italiana forse perché non ne capiva a sufficienza ed inoltre si sentiva “abbastanza straniero”. La sua vita, quindi, a Roma, fu una vita mondana, consapevolmente futile, privilegiata, vissuta con la grande aristocrazia papalina. L’aspetto mondano della vita di Primoli appare preponderante in questo libro perché la sua vita in Capitale era concentrata sulla mondanità. Infatti mentre a Roma Primoli non si perde un’occasione per uscire in società, a Parigi era la vita intellettuale ad avere la meglio. Tra le memorie francesi non ci sono ricordi mondani.

Giuseppe Primoli, Spettatori del Circo di Buffalo Bill (Roma, marzo 1890) © Fondazione Primoli
Questi due blocchi di vita si riscontrano anche nella sua scrittura?
Quello che unifica questi due periodi così contrastanti è quello che Primoli definì l’esprit littéraire, una tendenza ad avere sempre uno sguardo letterario. Sin da ragazzo aveva l’idea di diventare prima poeta, drammaturgo, ed infine romanziere. Quindi la vita mondana a Roma gli apparve come la fonte dalla quale trarre spunti e ispirazioni per romanzi e racconti. Questo pensiero agì su tutta la vita di Primoli, non solo sulla sua voglia di scrivere, rendendolo spettatore della sua stessa vita. Le sue memorie, racchiuse in parte in questo libro degli anni romani, le rileggeva continuamente, anche dopo molti anni. Nel 1874, ad esempio, racconta la storia di una marchesa maliarda, a fine pagina compare una sua nota, scritta circa nel 1924, in cui lui scrive «sono morti tutti, soltanto la marchesa è viva, ma è diventata pazza». Questo vuol dire che il primo lettore delle sue memorie era lui stesso.
C’erano altri destinatari oltre a sé stesso?
Fin dall’inizio lui scrisse questi quaderni per farli poi leggere esternamente e alla fine di ogni quaderno appuntava chi lo aveva letto. Dice chiaramente nel 1871: «Voglio scrivere queste memorie per farle poi leggere ai miei amici a Parigi».
È anche questo meccanismo di essere spettatore della sua vita che lo portò ad impugnare la macchina fotografica, cambiando la sua prospettiva sul guardare?
Lui non era interessato ad intrufolarsi nelle situazioni che fotografava, la sua era una visione sulla realtà. Lo sguardo di Primoli non è uno sguardo passivo, ma attivo, e spesso ironico. Lui vede e giudica contemporaneamente. Vede sempre attraverso l’arte. Quando Primoli faceva una fotografia non pensava alla visione impassibile della realtà, ma alla Bellezza, ed è questo che fa delle sue fotografie qualcosa di artistico.

Il conte Giuseppe Primoli mentre fotografa nella Via Ostiense allagata (Roma, marzo 1890) © Fondazione Primoli
Quindi esiste una convergenza tra le memorie scritte e la produzione fotografica di Primoli?
Assolutamente. Nel libro, ad un certo punto, racconta di quando leggendo un suo racconto alle zie (1876) si rese conto che era piatto, non aveva un vero legame con la realtà. Il suo intento, anche per le sue fotografie, non era quello di documentare fattivamente quello che accadeva davanti a lui, ma di rappresentarlo come in un quadro. E quando ne scrive era ben lontano dall’essere un fotografo.
Cosa gli fa prendere in mano la macchina fotografica a fine anni Ottanta del XIX secolo?
Non lo sappiamo precisamente, non lo scrive nei suoi diari. Sappiamo che Luigi, suo fratello, fotografava dal 1886 e che Giuseppe frequentava a Villa Medici gli artisti che già fotografavano. Però non ci sono testimonianze dirette dell’inizio della sua produzione fotografica.
Fotograficamente aveva uno stile molto moderno, anche se era solo la fine dell’Ottocento. Il taglio dell’inquadratura, la messa a fuoco, la composizione dell’immagine, uno sguardo dinamico della realtà che viveva, soprattutto in un periodo in cui era in auge la fotografia pittorialista…
Sì, probabilmente questo fu conseguenza della sua formazione artistica durante gli anni di frequentazione del “salotto” della zia Matilde Bonaparte e degli artisti e letterati che aveva conosciuto e con cui continuava a tenersi in contatto. Dagli anni Ottanta del XIX secolo, mentre viveva a Roma, cambiò ambiente e frequentò maggiormente scrittori, artisti e letterati. La sua impostazione estetica in fotografia deriva proprio da qui.
Era probabilmente un autodidatta, come lo erano quasi tutti i fotografi del momento. L’influsso delle sue conoscenze e frequentazioni lo si riscontra ad esempio guardando le fotografie di Gabrielle Hébert, moglie dell’allora direttore di Villa Medici Ernest Hébert: entrambi ritraevano situazioni simili, stesse inquadrature, stesse composizioni fotografiche.

Giuseppe Primoli, Il Tempio di Ercole allagato, poco distante la Fontana dei Tritoni (Roma, 14 marzo 1890) © Fondazione Primoli
Come evolve la sua produzione fotografica?
Primoli non si accontenta di un solo scatto. Fotografa tante volte lo stesso soggetto, da diversi punti di vista. Uno stesso evento lo racconta da più prospettive, puntando il suo obbiettivo anche verso chi ne è spettatore.
Come ad esempio per il matrimonio di Vittorio Emanuele II, oppure per il Circo di Buffalo Bill. In questo ultimo caso alcuni cronisti raccontarono che Primoli avesse piantato la sua tenda in mezzo alle tende degli indiani di Buffalo Bill e che avesse passato tre giorni tra di loro, producendo circa 400 fotografie. Tra queste immagini molte rappresentavano le tribune e gli spettatori, oppure quelli che – non avendo il biglietto, per vedere comunque l’evento – si arrampicavano sugli alberi. Nelle immagini della caccia alla volpe non fotografa solo la caccia, ma lo incuriosiva quello che succedeva attorno.
Questo suo sguardo poli-prospettico dipende anche dal suo spirito aperto e cosmopolita?
Sì probabilmente è legato alla sua sconfinata curiosità. Probabilmente si è avvicinato alla fotografia anche solo perché era una scoperta nuova: sperimenta e si compra due o tre macchine fotografiche. Nelle sue memorie ne parla come una mania, ha una smania irrefrenabile di fotografare. Scrive che l’apparecchio fotografico gli si agita tra le mani e lui non riesce a trattenerlo, accompagnando questi racconti fotografici anche da un linguaggio militaresco. Come dice lui stesso il fotografare cambiò il suo sguardo sul mondo e sulla natura. Racconta di un viaggio in treno per andare verso la Svizzera e scrive: «La mia fotomania mi ha avvicinato alla natura e ha reso le mie impressioni più dirette, più personali: prima in treno leggevo, oggi guardo il paesaggio.»

Giuseppe Primoli, Striscione pubblicitario dell’Esposizione egiziana davanti alla chiesa di San Gerolamo dei Croati (Roma, aprile 1891) © Fondazione Primoli
Con che cosa fotografava Primoli?
Lui parla di un Kinegraphe, oltre ad un altro apparecchio fotografico a fuoco fisso con pozzetto che ha usato essenzialmente per le fotografie di strada – le lastre erano molto piccole (8×9) e quindi era molto facile portarlo in giro – e poi un altro più grande che, però, non nomina mai (un Traveller si pensa) con lastre 13×18 che usava per panorami e ritratti a Palazzo.
C’è qualcosa che funge da filo rosso nella vastità della produzione fotografica di Giuseppe Primoli?
Lui era una persona sfaccettata, di carattere e di spirito, per questo motivo la sua fotografia rispecchia anche questo suo modo di essere. Non aveva una specializzazione. Lui voleva essere il testimone, non solo di una cosa specifica, ma di tutto. Il suo essere spettatore della propria vita, teorizzato in giovane età, è stato un meccanismo persistente in tutta la sua esistenza, influenzando anche il suo approccio con la fotografia e il suo carattere di persona culturalmente illimitata ma che ha un fondo di indecisione sostanziale. Quando si trovava a dover prendere una decisione si ritirava. La macchina fotografica è stata, forse, anche lo strumento attraverso il quale recuperò la concretezza della vita. In un primo momento c’era stata solo la scrittura, alla fine si aggiunse anche la fotografia.

Giuseppe Primoli, L’amazzone Annie Oakley del Circo di Buffalo Bill (Roma, marzo 1890) © Fondazione Primoli
Quindi ci fu un momento, dagli anni Ottanta del XIX secolo, in cui fotografava e scriveva contemporaneamente?
Sì certo. E scriveva come fotografava. Cioè le stesse cose di cui scriveva le fotografava anche, senza differenze. Le cose di cui scriveva combaciavano con la loro rappresentazione fotografica.