Cosa succederebbe se due mostri sacri dell’immaginario americano si incontrassero? Se quello che lavora come regista cinematografico selezionasse il suo “the best” nel mare magnum della produzione del fotografo? Se entrambi, anche se diversamente, avessero adottato un linguaggio che, ognuno nel suo tempo, fosse andato a incrinare gli standard di rappresentazione e una certa convezione visiva? Se entrambi avessero concentrato il loro pensiero creativo sul narrare l’America secondo un’”estetica del banale”? Cosa succederebbe se queste due entità mitiche e leggendarie si chiamassero Joel Coen e Lee Friedlander? E se nella primavera del 2022 ci fosse stata la fusione delle loro menti e dei loro sguardi, alla presenza, anche, di un altro mostro sacro della recitazione, Frances McDormand, moglie di Joel Coen, compagna di vita e di visione artistica? Quale sarebbe il risultato di tutti questi “se”? Sicuramente la mostra Lee Friedlander. Frame by Joel Coen, esposta, fino al 24 giugno, contemporaneamente alla Fraenkel Gallery di San Francisco e alla galleria Luhring Augustine di New York.

In questa occasione espositiva il fratello Coen ha scelto circa quarantacinque immagini degli oltre sessant’anni di gloriosa attività di Lee Friedlander, confezionando un editing non scontato. Ma d’altronde, come poteva essere altrimenti, con un materiale come quello del maestro americano e con un curatore che ha partorito una delle finestre più iconiche della tragicomicità americana come Fargo? Coen ha scelto, in un dialogo serrato con Lee Friedlander stesso, specifiche immagini della produzione del fotografo, immagini che contenessero la loro dimensione meta fotografica, il loro trasmettere la natura stessa del mezzo, l’inquadrare, il guardare, il selezionare la realtà – un po’ come faceva la poetica surrealista – secondo frammenti, l’immagine come porzione del reale che diventa altro da sé.

E così nella sequenza fotografica appositamente editata dal regista americano quello che si sussegue sono, come suggerisce il titolo stesso della mostra, “frames”: inquadrature, per l’appunto, tradotto letteralmente, ma anche sguardi, o meglio sguardi negli sguardi, visioni che contengono altre visioni. Coen ha, quindi, dato luogo a una mostra che esponesse la tanto amata “mise en abyme” di Lee Friedlander, il suo giocare con la prospettiva, con lo sguardo dello spettatore, con la natura stessa dell’immagine.

«Come regista, mi piaceva l’idea di creare una sequenza che mettesse in evidenza l’approccio insolito di Lee all’inquadratura: la sua scissione, frammentazione, ripetizione, frattura e riassemblaggio di elementi in composizioni nuove e impossibili» dice Coen riguardo il suo processo di selezione delle immagini. Al di là della incondizionata stima ed interesse provati da Coen per Friedlander, la visione del regista americano incontra quella del fotografo nella realizzazione di una dimensione visiva spiazzante e anticonformista, ironica a sprazzi, rappresentazione della complessità del reale, e mai priva di elementi che si ricollegano alla psiche e alle profondità della mente umana. È un’America desolante quella rappresentata da entrambi: un’America resa icona per Friedlander e scandagliata come tale; un’America metafora dei vizi della sua società per Joel Coen, tra cui però il personaggio con purezza e senno (spesso inscenato dalla sublime Frances McDormand) riesce, rocambolescamente, a mettere ordine.

Ma se nella selezione delle immagini, esposte a parete, l’incontro dei due rimane evidente esclusivamente in proiezione, attraverso l’atto di editing di Coen, nello slideshow il montaggio del regista rivela tale evidenza in maniera attiva, attraverso un ritmo visivo incalzante che sembra diventare il manifesto più simbolico di tale unione di menti geniali.

Il 28 febbraio 1967 inaugurava al MoMA di New York la mostra di tre giovani, fotograficamente parlando, talenti: Diane Arbus, Garry Winogrand e Lee Friedlander. Gli stessi che a breve sarebbero entrati nella storia della fotografia. New Documents, a cura di John Szarkowski, risultò uno spartiacque per la fotografia documentaria, non più tesa a testimoniare al mondo i conflitti della vita moderna ma, come scrisse Szarkowski stesso, “a conoscere la vita” secondo uno stile personale, senza enfatizzazioni né sentimentalismi e in maniera sicuramente più introspettiva. Un modo per entrare in contatto con le profondità di un reale complesso e sfaccettato, intrigante, inquietante, amaro, ironico, umanamente e paesaggisticamente. Così è stato, fin dagli esordi, anche per i fratelli Coen, per i loro film, che li vedevano registi e sceneggiatori: sguardi tesi a manifestare la dimensione parossistica del quotidiano americano attraverso la psiche dei loro personaggi e attraverso paesaggi desolanti.

Nei loro film, infatti, spesso il paesaggio americano risulta un prolungamento della mente umana che anima le loro scene, ma anche della mente umana del paese. I sentimenti dei loro personaggi – vili, ipocriti, grotteschi, a volte anche tragicomicamente stupidi – dialogano serratamente con ambientazioni spesso desertificate di umanità, distese sconfinate di neve o di terra brulla. Questa sottile, nemmeno troppo sottile, critica alla società a stelle e strisce da parte dei fratelli non è sicuramente un tema della poetica di Lee Friedlander, il fotografo non giudica attraverso le sue immagini, ma quello che accomuna queste due visioni sull’America è la presa in considerazione di un paese osservabile da diverse prospettive, che spesso si rivelano essere proiezioni dell’interiorità del loro sguardo e del loro sentire. Entrambi, quindi, rappresentano un paese e la sua società tramite lo sguardo della propria mente.