Alla base della serie Crying Men di Sam Taylor Wood (adesso Johnson), realizzata a cavallo tra il 2002 e il 2004, si cela una semplice domanda: possiamo davvero fidarci di una fotografia?

Se ci pensiamo attentamente, benché sia il mezzo prediletto e il più immediato per testimoniare la realtà, un’immagine risulta sempre vincolata dall’intervento cognitivo del suo autore. È lui che, posizionandosi come filtro tra il verificarsi di un avvenimento e la relativa fruizione del messaggio, sceglie astutamente cosa farci vedere, rivelandosi così un narratore tutt’altro che imparziale. Consapevole di questo meccanismo esplicativo, la Wood struttura una disarmante collezione di ritratti maschili in cui lacrime e gesti auto protettivi incorniciano il pianto silenzioso di famosissimi attori hollywoodiani. All’interno di ambientazioni sterili e impersonali Paul Newman, Benicio Del Toro, Jude Law e molte altre divinità del cinema posano per l’obiettivo della fotografa in quella che sembra una danza della tristezza.

A ciascuno di loro viene chiesto di abbandonarsi all’interpretazione dello strazio umano. Si innesca così un’atmosfera traboccante di equivocità psicologica capace di gettarci in uno stato di confusione paralizzante. Per questo motivo il lavoro proposto dall’artista britannica assume una valenza autoriale importantissima: è una partita che si gioca sul filo sottile del dubbio narrativo, animato dall’impossibilità di scindere la verità dalla messa in scena filmica. La serialità di questo progetto trova la sua conclusine con un libro, quasi un abbecedario visivo della disperazione, che la Wood sembra adoperare intenzionalmente per liberare l’uomo, inteso nella sua accezione maschile, dallo spettro tossico dell’ideologia machista.