«Cos’è, per me, un ritratto?
un vedere
una storia, un racconto
una responsabilità
una postura
una domanda
una parzialità
una sottile distanza
un testo.»

Il ritratto fotografico, in termini generali, è una raffigurazione fedele di uno o più individui. La distinguibilità dei tratti somatici, e l’esaltazione delle peculiarità individuali, diviene elemento fondamentale per innescare, nel soggetto/oggetto, quel meccanismo di riconoscimento del proprio Io esteriore; la traccia tangibile della propria esistenza. In realtà la fotografia, nello specifico della ritrattistica, è una lente precisa e micidiale nello scandagliare l’interdipendenza tra le persone, e le strutture sociali, e politiche, che definiscono la realtà in cui viviamo. In questo processo di attestazione di esistenza, il ruolo del fotografo è fondamentale; in base al suo modo di percepire il soggetto che ha di fronte in quel preciso momento, la narrazione della storia può cambiare. La questione quindi, che si pone davanti ad un ritratto, non è più legata al singolo soggetto, ma quali, e quanti, legami riesca a creare con il mondo circostante. Il soggetto/oggetto della foto rimane sempre quello, nella sua fissità perpetua ma il fotografo guarda oltre l’orizzonte meramente fisico; il punto fermo dell’immagine oltrepassa sé stesso e ci parla di collettività, di paesi e di essere umano, nel suo senso più universale. Colui che realizza un ritratto apre le porte ad infiniti universi: non sempre in accordo tra di loro. Da una singola fotografia di un essere umano possiamo ripercorre la storia, e le esistenze, di interi popoli.

La fotografa Paola Mattioli, che dagli anni 70 indaga il linguaggio fotografico alla luce del suo impiego in campo filosofico e politico, in questa nuova pubblicazione, “L’infinito nel volto dell’altro”, edito da Mimesis a cura di Francesca Adamo con postfazione di Raffaella Perna, concentra la sua attenzione sull’arte del ritratto, attraverso l’analisi, e il racconto, di alcune sue opere celebri: dall’ultimo ritratto di Giuseppe Ungaretti passando per gli albini africani, fino al celebre lavoro di indagine condotto sulla realtà operaia italiana odierna. In appendice è presente un testo dedicato a Ugo Mulas, grande maestro dell’autrice. In queste pagine, attraverso una lettura parallela delle sue opere, Paola Mattioli ci ricorda che quando la fotografia si accorda al sentire comune, le immagini non possono essere esaminate soltanto in base ad elementi tecnici o qualitativi, ma considerando la necessità che l’ha generata: il desiderio di riconoscerci in noi stessi, noi con l’altro e dell’altro con noi. Questo pesnsiero fa di ogni fotografia di Paola Mattioli un gesto creativo.
«La parola “ritrarre” vuol dire anche – nel suo significato più esteso – descrivere, raffigurare, rappresentare, delineare, tratteggiare: quindi mettere in scena, guardare con attenzione, prendere a tema. Così ho guardato, mi sono messa nella postura di guardare, non solo esseri umani, ma anche altre cose: parole, concetti, idee, racconti. Il gesto è sempre lo stesso: appoggiare il cavalletto – come dire “mi fermo qui” – e guardare, entrare in ascolto, tendere l’orecchio e aguzzare la vista.»
Paola Mattioli