La tuta con cui Giacomo Agostini trionfa a Daytona, la maglia di Diego Armando Maradona di Argentina-Nigeria ai mondiali USA 1994, la mitica bicicletta di Giuseppe Saronni. Le fotografie di Marco Craig ci prendono per mano e ci accompagnano nel cuore di storici eventi sportivi, mettendo al centro gli oggetti e gli indumenti utilizzati dagli atleti. I cimeli, inseriti in buste sottovuoto e accompagnati da un’etichetta che racconta la peculiarità dell’evento vissuto, sono tutti fotografati in scala 1:1 in una logica di corrispondenza con l’oggetto ripreso. Con il progetto Witness 1:1 Marco Craig ha raggiunto il punto più alto della sua maturazione artistica. Lo abbiamo intervistato.
Come ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
L’arte mi affascina da sempre, fin da ragazzo quando ho visto per la prima volta New York, dove ho trovato un ambiente all’avanguardia rispetto all’Italia. Poi sono tornato a Milano e ho cominciato a lavorare da Ballo&Ballo, celebre studio fotografico specializzato in design e fotografia d’interni. Sono stati anni fondamentali per la mia formazione, perché ho avuto la possibilità di lavorare al fianco dei migliori architetti e designer al mondo. Dopo circa dieci anni sono riuscito ad aprirmi un mio studio, grazie all’esperienza acquisita sul campo. È stato allora che ho deciso di fare della fotografia la mia professione.
So che hai contemporaneamente corso e fotografato la maratona di New York. Com’è andata?
È stata una delle esperienze più emozionanti della mia vita, qualcosa di memorabile. Nel 2015 ho ricevuto una richiesta particolare, cioè di fotografare e allo stesso tempo correre la maratona di New York; la cosa mi ha incuriosito e ho subito accettato, anche se non avevo la minima idea di che cosa dovessi fare. Prima di tutto mi sono messo a studiare, sfogliando i libri dei grandi maestri della fotografia per cercare un’ispirazione: dopo un po’ ho trovato degli scatti di William Klein, che aveva fotografato alcune manifestazioni pubbliche con un grandangolo 28mm in bianco e nero. È stato in quel momento che mi si è accesa una lampadina in testa e ho deciso che io, da corridore, avrei fotografato gli spettatori che stavano al di là della linea do not cross. Volevo raccontare la la maratona dal punto di vista del corridore, fotografare tutto quello che i suoi occhi vedevano durante la maratona.
Ma non è vietato portarsi dietro una macchina fotografica durante la gara?
Sì, il regolamento lo vieta, ma ormai mi ero deciso a portare avanti la mia idea. Sono andato presentare la mia idea a Leica, che si è innamorata del progetto e mi ha dato una piccola macchina con un’ottica fissa 28mm, proprio come Klein. Ho fissato al centro del petto una fascia in neoprene e lì ho posizionato la macchina fotografica, così da avere sempre le mani libere durante la corsa; quando vedevo qualche scena interessante, mi fermavo e scattavo. Durante il percorso ho vissuto tante emozioni diverse: stavo facendo quello che più mi appassiona – sport e fotografia – nella città più bella del mondo e sotto gli occhi della mia famiglia, che era presente. Ho finito la maratona, tra l’altro con un tempo di tutto rispetto, e ho osservato le immagini scattate: contenevano tutte quelle emozioni che stavo vivendo durante la corsa e, soprattutto, erano dritte e precise, come se fossero state scattate in uno studio. Nonostante avessi corso per 42 km e fossi sballottato da un vortice di sentimenti molto intensi, ero riuscito a portare a casa un progetto di storytelling originale e tecnicamente perfetto. Il lavoro su New York è poi diventato una mostra, uno spettacolo teatrale e un libro.
Dopo New York è cambiato qualcosa nel tuo modo di approcciare la fotografia?
È sicuramente cambiata la consapevolezza, perché ho capito la mia serenità interiore derivava da quel nuovo modo di sviluppare un progetto. Ho deciso di dare retta alla mia emotività e ho cercato di dedicarmi a lavori che mi facessero sentire soddisfatto. È da questo presupposto che nasce Witness 1:1, dalla consapevolezza del fatto che l’arte si fa con il cuore e che è la voglia di trasmettere i tuoi sentimenti al mondo esterno. Il lavoro è come un ritratto caratterizzato da un’analisi di storicità dietro all’oggetto fotografato. In questo progetto ci sono tante chiavi di lettura, c’è uno studio dietro a ogni oggetto e certamente non si tratta di un semplice esercizio estetico: è un lavoro che si traduce in chiave artistica, libero da un aspetto fotografico tecnico.

Come sei riuscito a reperire tutti questi cimeli sportivi?
È stata una lunga ricerca, spesso portata avanti dal passaparola e dall’aiuto di amici e conoscenti. Ho selezionato una serie di eventi storici in campo sportivo, poi mi sono messo alla ricerca di questi oggetti iconici. Con questo progetto ho cercato di rendere pubblico un oggetto che normalmente è privato, magari chiuso nelle case dei collezionisti, e di consegnarlo all’eternità sotto forma di immagine. La fotografia, in edizione limitata di 5 esemplari l’una, moltiplica l’unicità del cimelio sportivo e lo rende un nuovo oggetto da collezione. La mia idea è quella di restituire l’eroicità e la storicità di un momento irripetibile dello sport.