di Alessio Fusi
A Casale Monferrato, un luogo che vanta più di duemila anni di storia, dallo scorso 25 marzo, si è inaugurata la prima edizione di Monfest. Un’iniziativa che nasce in seguito a una lunga gestazione, imposta da anni universalmente complicati per la nostra società, ma che le ha permesso di venire alla luce ben strutturata e pronta a lasciare il segno nel panorama fotografico. Grandi mostre, workshop, letture portfolio e altre splendide iniziative tutte da scoprire, fanno del festival una opportunità da non perdere per chiunque voglia tuffarsi nel mondo delle immagini.

Qui trovano spazio i linguaggi artistici di autori internazionali affiancati dalle voci del territorio, una coesione essenziale per questa esperienza, che fa da supporto alle opere e le incornicia magnificamente in un contesto affascinate. Ma per riuscire ad immergersi a pieno in un percorso espositivo “diffuso” occorre, come primo passo, analizzarne il tema: «Le forme del tempo: da Francesco Negri al contemporaneo». Il tempo è un argomento di fondamentale importanza collettiva, con la sua matrice intangibile, è ricco di significati ammalianti che con le nostre immagini cerchiamo insistentemente di indagare, nel tentativo di restituire un messaggio in grado di diventare immortale. Il titolo – come afferma il direttore artistico Mariateresa Cerretelli: «è una espressione ispirata da Italo Calvino che definiva le città la forma del tempo» – perciò la kermesse di organizzatori si pone l’obiettivo di esplodere questa riflessione, estendendola anche al paesaggio, ai ritratti e alla cultura.

Punto nevralgico di un programma di mostre, che coinvolge tutti i contenitori culturali della città, è certamente il Castello del Monferrato. Grazie a una splendida varietà di spazi, il castello si rende l’ambiente ideale per accogliere esposizioni come Gabriele Basilico in Monferrato. Un raccolta di immagini sensazionali che il fotografo ha realizzato, partendo dal 2006, come omaggio ai luoghi della città. Vicoli deserti, ariose piazze ed elegantissime architetture, costituiscono un documentario reso poetico e malinconicamente sublime dall’utilizzo del bianco e nero. Questi scatti, scolpiti da una luce densamente evocativa, si fanno testimoni di un tempo in bilico tra passato e futuro dove lo spettatore viene catapultato in un viaggio attraverso la storia.

Contrapposta a una esposizione così solenne, ci addentriamo lentamente nel mondo immaginario di Valentina Vannicola che, come in un dipinto di Edward Hopper, testimonia la dimensione effimera e surreale del tempo. Il progetto Living Layers racconta, attraverso la staged photography, scenari onirici incrociati con una dimensione fiabesca che sembrano volerci disorientare facendo leva sulle nostre emozioni più nascoste. Un dialogo con la città che, a differenza di quella raccontata da Basilico, perde ogni riferimento di realtà. L’artista realizza una serie di tableaux vivants animati da un’aura cinematografica capace di abbracciarci e invitarci a seguire le avventure di personaggi kafkiani interpretati dagli abitanti di una insolita periferia romana.

Questo slancio di fantasia stimola il nostro ragionamento e ci permette di proseguire l’indagine sul concetto di tempo. Infatti, nelle sale che costeggiano il perimetro del castello, affacciato sul panorama dolcemente collinare del piccolo borgo, si apre ai nostri occhi un lavoro alquanto interessante che pone l’attenzione sulla memoria del tempo: Pompei e dintorni di Claudio Sabatino. Utilizzando il territorio come chiave di lettura, l’autore si interroga sulla relazione della città tra passato e presente. Ci propone scatti dominati da una luce rovente capace di penetrare nelle profondità della pietra ed enfatizzarne anche le più piccole venature. Qui i resti della città di Pompei si fondono con il paesaggio odierno in un racconto atrocemente sublime di come la nostra memoria sociale sia imprigionata in una modernità soffocante che, forse un po’ come questo percorso espositivo, si appropria di ogni spazio disponibile per il suo sviluppo.

Anche un’altra mostra si inserisce a tutto diritto nel dialogo tra tempo e memoria, questa volta però declinandolo attraverso un linguaggio personale ed ironico. Con Mare di silenzio, Silvio Canini racconta la sua Romagna sotto una nuova prospettiva. Allontanandosi dalla rappresentazione stereotipata di luogo affollato, afoso, spesso ostaggio del perpetuo rumore estivo, l’autore dipinge una personale versione magicamente silente della riviera, nella quale dominano i colori freddi e la neve inghiottisce ogni cosa, persino il mare. Ad affiancare fotografie così pacate, dimostrando quanto Canini sia un artista poliedrico, troviamo alcune installazioni che fanno riferimento all’abbondante dipendenza della società nei confronti delle immagini. Questa vuole essere una critica bonaria, che testimonia un occhio acuto e lucido di un creativo pronto, con il suo lavoro, a far riflettere ma anche sorridere.

Tappa finale nel vasto circuito del Castello è certamente la mostra omaggio a Francesco Negri. Quest’ultimo viene celebrato non soltanto come una figura di spicco nel tessuto cittadino per i vari incarichi ricoperti – avvocato e addirittura sindaco di Casale – ma anche per essere un grande fotografo e sperimentatore. La rassegna dei suoi magnifici ritratti è affiancata da un’apparecchiatura fotografica rudimentale che ne accentua la valenza storica. Varcato l’ingresso della sala, le memorie dell’autore, ci accolgono in uno spazio sospeso nel tempo, dove le pareti lasciate allo stato grezzo sembrano condurci attraverso un passaggio segreto in grado di portarci indietro fino alla seconda metà dell’Ottocento; forse per offrirci la possibilità di essere, a nostra volta, “visti” dagli occhi dello stesso fotografo.

Usciti da Piazza Castello, tappa obbligatoria in questo viaggio attraverso il tempo è il Teatro Municipale; un gioiello italiano che risale al lontano 1700. Una delle sale è allestita per accogliere la piccola mostra di Raoul Iacometti sul delicato tema delle arti performative durante la pandemia: #homeTOhome. Nonostante si tratti di un un progetto notevole per il suo messaggio di “fronte comune”, veicolato coinvolgendo strepitosi ballerini in giro per il mondo e immortalati grazie ad una ormai diffusissima videochiamata, la vera meraviglia si trova al piano terra dell’edificio: la grande sala del teatro. Cinquecento posti di puro incanto, impreziositi da decorazioni capaci di ritagliarsi un posto nel nostro cuore. Per scongiurare qualsiasi insidia del “fuori tema”, ecco che il Monfest riesce ad includere il concetto alla base del suo esistere, non solo nei progetti ma anche in scelte attente e in linea con la contemporaneità. Infatti, sfoggia una favolosa componente femminile votata all’eccellenza. Ad affiancare la travolgente Valentina Vannicola, troviamo le mostre di una straordinaria Lisetta Carmi ed una dolce Silvia Camporesi. La prima – Viaggio in Israele e Palestina – compie una ricognizione su due grandi reportage realizzati tra il 1962 e il 1967 e ci apre le porte della squisita Sinagoga di Casale Monferrato. Un luogo incantevole, collocato nel cuore della città, delicatamente nascosto agli occhi dei forestieri ma fulcro di un’esperienza comunitaria solida ed effettiva. I 35 scatti inediti che compongono la rassegna sono organizzati seguendo un doppio percorso espositivo volto a sottolineare la complessa diversità di un paesaggio umano spaccato in due momenti. Essi sono anche testimoni dei primi passi da fotografa dell’autrice e della sua immensa volontà di conoscere e capire le culture che popolano il nostro mondo, fissandole attraverso la sua macchina fotografica. Un’atmosfera decisa ma allo stesso tempo inquieta catturata da una sensibilità unica, tipica di Lisetta Carmi, ci restituisce un affresco complesso, obiettivo, costruito attraverso le immagini di un paese in continuo cambiamento.

La seconda – Domestica, vincitrice del Premio Soroptimist Storie di donne – trova il suo posto nelle sale di Palazzo Gozzani di Treville, sede dell’Accademia Filarmonica. Uno scalone ci accoglie nello spazio principale dove, alzando per un istante gli occhi verso il soffitto, veniamo travolti da un immenso trompe-l’oeil che ci risucchia verso un infinito immaginario. I ricchi e abbondanti decori della sala si sposano alla perfezione con la delicata semplicità degli scatti di Silvia Camporesi. Il suo progetto si immerge in una coscienza umana sull’orlo della rivoluzione in procinto di entrare, circospetta e sempre a piccoli passi, in un nuovo habitat familiare, del quale vuole riscriverne i valori. Sono scatti estremamente personali che, grazie alla loro sincerità ci scuotono nel profondo e innescano in noi una riflessione sulla quotidianità e tutte le sue stravaganze.

Con la visita alla Cattedrale di Sant’Evasio si conclude il nostro interessante percorso attraverso i mille volti del tempo. Qui, il maestro dell’enigma, l’uomo baciato dall’intelletto che ha anticipato ogni forma di modernità, Leonardo da Vinci, viene celebrato dalla sensazionale versione del Cenacolo vinciano di Maurizio Galimberti. L’eterna sacralità del famoso dipinto viene assorbita, digerita e riproposta dall’autore che, per mezzo di un delicatissimo processo, fonde Polaroid, Fuji instax e digitale, elogiando la potenza del presente nella sua disarmante totalità. Gli scatti, uniti all’imponente scheletro della chiesa, si affermano come nuova tipologia di affreschi capaci di folgorare all’istante il visitatore. L’unico aspetto che, purtroppo, irrompe nel nostro tripudio di emozioni è l’allestimento che sembra voler smorzare l’impeto del progetto confinandolo, soprattutto nella sala principale, a un posto quasi da spettatore. Forse una mossa dettata dal complesso meccanismo della psiche umana che costantemente ci illude di poter plasmare, a nostro piacimento, una condizione così fluida come il tempo, il quale, per antonomasia, tende a sfuggire ad ogni tentativo di controllo.