Nick Meyer, nel suo nuovo libro The Local, pubblicato da MACK, indaga un territorio, quello della contea di Franklin, in Massachussetts. Ma non è un semplice atlante tenuto insieme da un’estetica documentaristica fredda e distaccata che si insinua tra le rovine e le decadenze del territorio, portandone alla luce il degrado, sia urbano ma anche e soprattutto umano. C’è qualcosa di molto personale ed intimo che emerge dalle sue pagine, una ricerca introspettiva di Meyer che, tornato a casa dopo anni di assenza, per quattro anni non fa che tornare e ritornare a fotografarla per conoscerla meglio e conoscere meglio anche sé stesso. Il tempo e lo spazio rappresentati da Meyer si connotano, così, contemporaneamente della valenza privata del fotografo, ma anche di quella narrativa che serve a strutturare un racconto. Lo abbiamo intervistato.

Perché il titolo The Local?
Il titolo è stato ispirato dal poema di William Carlos Williams, Patterson. Williams fa un appunto all’inizio del suo libro «… che un uomo in sé stesso è una città…». La poesia si propone di capire il suo paese e la sua gente e, come ha detto, «(per) trovare un’immagine abbastanza grande da incarnare il mondo intero intorno a me». Il nome Patterson nel poema di Williams è usato sia come ambientazione – Patterson, New Jersey – che come nome del personaggio immaginario che si sta interrogando attraverso la città, scoprendo il mondo che lo circonda. Ho usato l’idea che un titolo possa avere due significati (The Local può riferirsi a un luogo specifico o The Local può essere una persona da un luogo), ma per me l’ambiguità dell’ambientazione era più importante. Mentre questa è casa mia, era importante trovare un titolo specifico per me, pur dando modo al luogo di essere contestualizzato ovunque.

Nel tuo testo descrittivo scrivi che fotografare gli occhi azzurri di Nikita è stato come provare a capire meglio casa tua. Perché?
I suoi occhi in particolare mi hanno aiutato a capire meglio la mia casa: erano ciò che inizialmente mi attirava da lei, una semplice caratteristica fisica che trovai bella e spaventosa. Ma dopo la nostra breve interazione, ho acquisito una migliore comprensione di ciò che stavo cercando nella mia città. Nikita ed io siamo venuti da mondi completamente diversi e la nostra unica connessione è avvenuta facendo quella foto. Quando sono stato in grado di andare oltre l’iniziale motivazione che mi ha spinto a fotografarla, mi sono reso conto che l’interazione che condividevo con lei mi stava portando a vedere cosa stavo cercando. Per gran parte della mia vita, ho ignorato, trascurato o cancellato completamente gran parte di casa mia e attraversare il percorso con Nikita mi ha portato a voler saperne di più e ottenere una comprensione più completa del posto da dove vengo.

Tutto nel tuo libro parla di decadenza e degrado, di precarietà e anche di morte: delle persone, delle cose, anche della natura. Nel produrre questo lavoro c’è un modello estetico e fotografico che hai seguito?
Immagino che l’etichetta di “fotografia documentaria” sarebbe appropriata a questo lavoro. Sono sempre titubante ad accettarla però. La cosa che mi interessa di più della fotografia è la sua incapacità di dire una verità reale. Alle due estremità di una fotografia c’è qualcosa che è successo o accadrà. La fotografia può essere precisa solo per una frazione di secondo, il che mi ha sempre fatto credere al valore della fotografia come documento. Sono più interessato al valore narrativo che le immagini possono assumere quando sussistono l’una accanto all’altra. Mentre i momenti si basano sulla realtà, c’è una finzione parziale, o editoriale che inizia quando le immagini vengono messe in una sequenza e emerge una storia completamente nuova e soggettiva. Per quanto riguarda l’argomento, mi piace questa idea di precarietà. Sono attratto dalla fragilità della sicurezza e del comfort o dalla linea sfocata tra la vita e la morte. In questo senso, suppongo di seguire un certo modello fotografico.
Ciò che viene ritratto in The Local ha una valenza di “relitto”. La dimensione che viene da te narrata è quella del dopo, i resti, le rovine di qualcosa. Anche le persone ritratte compaiono non per la loro storia individuale ma per il loro essere simbolo di decadenza. Come, nel produrre questo lavoro, la dimensione simbolica ha dialogato con la tua dimensione privata e con la realtà?
Ho usato consapevolmente molti modelli e luoghi comuni nel libro per riflettere l’idea di staticità e per mostrare momenti di desiderio di cambiamento. Come ho detto prima, stavo davvero cercando di conoscere un lato sconosciuto di questo posto familiare. La parte di esso che avevo ignorato. Lavorare al progetto mi ha aperto a una comprensione più completa di casa mia. Vivo ancora la mia vita allo stesso modo, ma qui mi sento sia meno anonimo, sia meno controllato. Può essere un po’ spaventoso, ma penso che mi faccia sentire più parte di questo territorio.

Le tue immagini sembrano dei rilievi fotografici per indagare la topografia cittadina, ma anche abitativa e umana. Nella varietà iconografica di cui è composto il tuo progetto compare per due volte lo stesso scenario: degli scalini di cemento che conducono ad una porta rossa e accanto una vetrata con una bandiera americana. Che cos’è quel posto, perché è così importante?
Torno a molti degli stessi temi nel libro. Per me era importante creare un senso di sottili cambiamenti e mostrare che stavo tornando negli stessi posti più e più volte. Ho scelto di mantenere quasi identica l’immagine degli scalini di cemento perché mi piaceva molto immaginare la reazione delle persone che si rendevano conto di aver già visto l’immagine e saltavano indietro tutte quelle pagine per trovare le differenze.

Nel fotografare la tua vecchia città ti sei sentito dentro al racconto? O tramite il mezzo fotografico sei riuscito a distaccartene?
Durante i quattro anni in cui ho fatto questo lavoro ho incontrato molte persone su cui, prima, non mi sarei mai soffermato e ho creato alcune amicizie davvero meravigliose che non avrei mai creato se non avessi fotografato a casa mia. Vedo ancora molte delle persone che ho conosciuto e parliamo ancora. La macchina fotografica è stata un modo per nascondermi e rimanere anonimo o rimanere all’esterno a guardare. Nel produrre The Local quel tipo di anonimato mi si è ritorto contro. Nel bene e nel male mi sento più visto ora che mai.
THE LOCAL di Nick Meyer
MACK, 2021