Paola Mattioli, fotografa laureata in filosofia con Enzo Paci, è una delle voci più impegnate e intellettuali del panorama artistico italiano. L’incontro in gioventù con Ugo Mulas, del quale diverrà assistente, segnerà profondamente la sua carriera artistica. Il suo obiettivo fotografico, sempre attento ai cambiamenti della società contemporanea, ci consegna uno sguardo personale sul mondo che ci circonda. L’abbiamo intervistata.

Definirti semplicemente fotografa è riduttivo. Tu come descriveresti?
Fotografa va benissimo, autrice se vuoi… nel senso di “augere”, far crescere, aggiungere la propria voce…
Una volta hai utilizzato il termine “fotografia saggistica” per descrivere il tuo approccio stilistico. Che tipo fotografia è la tua?
La mia fotografia non è assimilabile al puro reportage, ma è come un piccolo seme che cresce e si sviluppa, seguendo i suoi tempi e i suoi ritmi. L’idea creativa, in questo modo, viene resa concreta attraverso la sedimentazione delle esperienze che hanno sviluppato in me nuove forme di senso. A proposito di alcune fotografie che mi era capitato di fare al funerale di Krusciov (a Mosca, nel 1971) mi è venuto da dire che quelle immagini non avevano avuto una destinazione giornalistica – che sarebbe stata anche possibile – perché il lavoro che stavo portando avanti, e che in fondo sto ancora intrecciando, riguarda una fotografia con un significato un po’ diverso dalla rappresentazione diretta della realtà̀. È uno sguardo un po’ laterale, un po’ in seconda battuta, a seguito di una riflessione. In questo senso penso che si possa definire “saggistica” una fotografia che non è reportage, ma che si avvicina di più al pensiero.
Nella tua ricerca artistica è molto evidente la vicinanza al mondo della scrittura, come nel tuo celebre progetto Le immagini del no, un lavoro che possiamo definire anche “testo visuale”. La mia domanda allora è, quali rapporti intercorrono tra immagine e parola?
Partiamo dall’inizio, il progetto Le Immagini del no, realizzato a quattro mani con Anna Candiani, nasce in un momento storico e politico molto significativo per l’Italia, vicino alla campagna che ha preceduto il referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio, svoltosi nel maggio del 1974. In quell’occasione non mi sono concentrata sulle manifestazioni o sugli esseri umani, ma sui veri protagonisti della storia, quelli che veramente avrebbero deciso le sorti del nostro destino: le parole. Milano era invasa dalla parola No, la si vedeva in ogni luogo e in ogni dove. Ho capito che per trasformare in forma reale la potenza simbolica di quella parola, avrei dovuto portare il mio obiettivo fotografico all’interno delle pieghe della scrittura, senza rinunciare alla documentazione storica della memoria. Tornando alla domanda specifica, le immagini, per loro stessa natura, non possono essere paragonate a dei testi, e per questo motivo la loro “traduzione” non può avvenire entro schemi linguistici. Sia l’immagine che la parola, nella loro diversità, non sono sempre specchi che riflettono la realtà del mondo, ma sono, anche, delle pratiche che ci permettono di sviluppare mondi alternativi e possibili. Per quanto mi riguarda, mi diverto molto ad utilizzare meccanismi letterari per creare molteplici piani interpretativi; un gioco che crea connessione con l’osservatore.

Esistono delle regole per decodificare un’opera fotografica?
No, fortunatamente non esistono. Non ci sono formule che ci consentono di interpretare perfettamente l’arte, come per tutte le cose affascinanti della vita. Se esistessero delle scorciatoie per svelare i segreti di ciò che ci attrae, come può esserlo una fotografia, una scultura, una poesia, tutto l’impegno profuso nel crearlo sarebbe vano.

Hai realizzato il ritratto più celebre e intenso del grandissimo poeta Giuseppe Ungaretti. Come avvenne quell’incontro, e, soprattutto, qual è il tuo approccio al genere della ritrattistica?
L’incontro con Giuseppe Ungaretti è stato importante. Ho fotografato il grande poeta nel maggio del 1970. Lui aveva 82 anni, e io 22. Stavo muovendo i primi passi nella fotografia. Come avvenne l’incontro? Un editore d’arte, Luigi Majno, aveva bisogno di un ritratto di Ungaretti da inserire in originale tra le pagine di una delle sue raffinate cartelle dedicate ad arte e poesia, in questo caso abbinato a Sonia Delaunay. Avevo pochissima esperienza e il rodaggio allo studio di Ugo Mulas alle spalle. Posso affermare, quasi con certezza, che ha fatto tutto lui. Ho testimoniato il suo spettacolo: un essere complesso che conteneva in sé stesso gli opposti della vita; tristezza e allegria, vecchiaia e giovinezza. Appena sviluppate, non con poca ansia, le mostrai a Mulas che mi disse: «Belle, bellissime, bisogna proporle subito a qualcuno». Chiamò un amico giornalista che rispose freddamente: «Signorina, Ungaretti ci servirà solo il giorno in cui muore». Il destino volle che da lì a poco Ungaretti morì: tutti cercavano il mio ritratto. Enzo Paci, che ebbe un lungo scambio epistolare con il poeta, mi propose di pubblicare con lui, da Scheiwiller, un volume con il loro carteggio, le mie fotografie e una sua prefazione. Un lavoro indimenticabile. A me piace molto realizzare ritratti. Per me un ritratto è una proiezione del referente; in quel breve momento cerco di instaurare un dialogo, una connessione di luce, tra lo sguardo che ho davanti e il mio sguardo, e registro questa “conversazione”. Ovviamente nel ritratto ci sono anche io, la mia presenza la si ritrova nell’ambientazione. Il contesto, sia esso in esterni o in un interno, mi aiuta molto a raccontare piccole cose, dettagli della persona che ho di fronte.

Cosa ti rende felice della fotografia?
Il fatto di avere in mano tutto il processo, dal progetto iniziale alle stampe finite.
Tu sei stata molto attiva all’interno del movimento femminista. Oggi quanto può essere importante il contributo della fotografia alla causa femminile?
Molto, perché mostra quanto lo sguardo delle donne sia davvero diverso da quello degli uomini. Non migliore, diverso.