Ritorna Paris Photo e lo fa in grande stile. La fiera di fotografia compie 25 anni e per festeggiare l’anniversario indossa il suo abito più elegante. Nella particolare e ormai consueta cornice del Grand Palais Éphémère, a due passi dalla Tour Eiffel, 200 tra gallerie ed editori da tutto il mondo presentano i loro progetti. Fotografie tecnicamente tradizionali, video installazioni, manipolazioni cromatiche e interventi d’autore si fondono qui in un melting-pot culturalmente perturbante. Varcando la soglia dell’immenso palazzo di vetro, situato alle spalle dell’École Militaire, si viene travolti da uno tsunami creatività. Il nostro sguardo ignaro e solitario viene assalito dalla curiosità umana che lo spinge a vagare nei fitti meandri del percorso espositivo per poi smarrirsi come intrappolato in un romantico dedalo percettivo, costellato di immagini ed esegesi concettuali. Ecco che, rimbalzando da uno stand espositivo all’altro, destreggiandosi tra la miriade di input percettivi e intellettualmente arricchiti da una fitta scaletta di talk-interviste con ospiti illustri, scorgiamo dei veri e propri tesori fotografici che, impastati nel mezzo di questo orgasmo visivo e cautamente riparati da una vista superficiale, oppure solamente frastornata dal richiamo dell’obliquità contemplativa, sembrano tentare una timida fuga dallo sguardo. Quali sono quindi le cinque gallerie che quest’anno si propongono come eccellenze della creatività contemporanea?
EINSPACH – Fine art & Photography
Situata nell’ala ovest dell’edificio la galleria “made in Budapest” EINSPACH, attraverso un percorso furtivamente lineare, ci propone un racconto struggente ed esplicito della scena creativa est-europea. Mossa da un obiettivo divulgativo in cui l’arte contemporanea viene prepotentemente contaminata dalla fotografia è strutturando uno storytelling sullo scheletro del modernismo post-guerra che EINSPACH espone i progetti della fotografa ungherese Orshi Drozdik. Le sue sono immagini vive, sono azioni dilaniate da emozioni sincere di cui possiamo sentire il respiro intenso anche solo avvicinandoci alla parete dove sono appese. Drozdik crea racconti visivi esplodendo il concetto di espressione artistica. La sua voce di autorevole rivoluzionaria si serve di disegni, dipinti, performance e soprattuto fotografie fisicamente destrutturate per gridare al femminismo e all’emancipazione personale. È un gioco sadico di identità negate che trova nello spazio claustrofobico di lembi di carta fotografica la giusta dimensione per affermarsi ideologicamente e stravolgere ogni anacronismo moderno.

NCONTEMPORARY
Nella parte più estrema di tutta la fiera, a un passo dalla ricca sezione editoriale, l’italiana NCONTEMPORARY ci affascina con i progetti della giovanissima fotografa emiliano-togolese Silvia Rosi. L’autrice, classe 1992, espone gli estratti delle sue ultime performance fotografiche – Encounter e La Sconosciuta – per trasportarci nell’intimità del suo “lessico familiare” (titolo della sua fortunata mostra torinese tenutasi lo scorso 2021). Entrambi i progetti ci incalzano con pungenti domande esistenziali per riuscire a smascherare il nostro perbenismo sciale e attuare un processo di educazione relazionale, fondato sulla condivisione e sull’ascolto reciproco. Di fatto Silvia, prendendo ispirazione dalle linee estetiche dei classici ritratti africani, formali e contraddistinti da uno sfondo colorato, padroneggia una grammatica visiva diretta ed emotivamente formativa. Con i suoi lavori ci rende partecipi delle sue radici e dell’importanza di tramandare efficacemente una memoria collettiva. Ogni frame sprona la nostra sopita sensibilità per condurci nel racconto del tortuoso cammino che i suoi genitori hanno dovuto affrontare per trasferirsi in Europa. Il suo sguardo è talmente personale e disarmante da sgretolare il muro del distacco sensoriale imposto dalla fisicità delle opere. Silvia mescola ritratti e video installazioni amplificando così la riservatezza delle sue emozioni per renderle universalmente comprensibili.

ENGLAND & CO
Sul confine della Côté Suffren la storica galleria londinese ENGLAND & CO allestisce il suo spazio espositivo con alcuni scatti vintage dell’artista anglo-zambese Anne Bean.
Fotogrammi vividi e concettualmente dinamici si propongono di interpretare la tacita connessione tra arte e vitalità umana compiendo un’iperbole performativa in cui manipolazioni materiche, elementi disossanti, fuoco e vapore ci spingono al confine con un mondo mistico fatto di significati nascosti e allegorie comunitarie. Le sequenze, disposte ritmicamente seguendo precise geometrie narrative, assumono le fattezze di una scacchiera ideologica alle cui estremità si sfidano sacro e profano, giusto e sbagliato, vero e falso. Quella della Bean è una provocazione mascherata da eccentricità esecutiva che esorta alla messa in discussione personale per garantire la libertà altrui. Pertanto, gli interventi della Bean conquistano il ruolo di veri e propri catalizzatori emotivi capaci di far vacillare il pensiero patriarcale e le cravatte morali che da secoli manovrano gli ingranaggi delle nostre dinamiche sociali.
LA GALERIE ROUGE
Navigando silenziosamente nel Main Sector e spingendoci fin nel profondo della sezione est di Grand Palais Éphémèr incontriamo una delle gallerie di rappresentanza nazionale: LA GALERIE ROUGE. È in un clima accogliente e del tutto informale che prende vita un racconto suggestivo, fatto di immagini potenti e concettualmente intriganti, in grado di scardinare ogni nostra percezione comunicativa in favore di una rinnovata visione del mondo. Per il suo grande pubblico il team parigino seleziona quindi un piccolo corpus fotografico che ripercorre la vita progettuale dell’autrice panamense Sandra Eleta. Tra i lavori in mostra spicca la serie La Servidumbre (La servitude), un reportage dal sapore concettuale realizzato tra Spagna e la stessa Panama nella seconda metà degli anni Settanta. Con questo titolo così politicamente provocatorio la Eleta descrive degli scatti spiazzanti che, attraverso una manciata di elementi formalmente studiati, traducono le vite dei collaboratori domestici al servizio della spietata upper class latina. La fotografa instaura con loro un rapporto di fiducia reciproca che le consente di ritrarli in situazioni paradossali, immortalati tra passività classista e ambiguità comportamentale.
Incastonato nel cuore pulsante di Paris Photo emerge il padiglione espositivo dell’americanissima FRAENKEL Gallery. Uno spazio da overdose collezionista, un angolo nel quale è possibile estraniarsi dal ritmo sincopato della fiera per abbandonarsi a un processo meditativo scandito dalle immagini dei mostri sacri della fotografia. Qui la produzione introspettiva e antropologica di Sophie Calle si fonde con la visione asetticamente tassonomica di Bernd & Hilla Becher per poi accendersi con le sperimentazioni di Adam Fuss e i poetici panorami teatrali di Hiroshi Sugimoto. Si tratta di un percorso che indirettamente affonda le sue radici nella psiche umana, ti ammalia millantando una freddezza emotiva che subito dopo si rivela essere più invischiante di qualsivoglia ritratto canonico. Gli autori presenti, ciascuno con la propria cifra stilistica, spalancano le porte del sentire, gettano luce su un sentire inteso come sviluppo riflessivo capace di sottolineare una complessa coerenza connettiva tra uomo e spazio, interiorità soggettiva ed esteriorità oggettiva.
IL BILANCIO
Alla luce di questo bilancio pseudo-investigativo è necessario sottolineare come, indipendentemente dal contesto storico e dalla provenienza geografica, l’uomo sembra avvertire la medesima urgenza di tornare ad analizzare gli interrogativi che lo tormentano ciclicamente: il divario socio-culturale, le lotte politiche, le metamorfosi ambientali, i demoni personali e le relazioni. Ogni quesito, seppur con modalità espressive sempre nuove, tende a ripetersi insperabilmente denotando una perpetua incompletezza. Se quindi sfruttiamo l’ambiguità dello strumento fotografico anche come mezzo di ricerca sociologica viene da chiedersi: «Il tempo riesce davvero a cambiarci?»