Sentendo il termine “reportage fotografico” la nostra mente reagisce inondandoci con informazioni storiche e influenze belliche: tutte tematiche precise e ben contestualizzate, abitualmente associate a un genere progettuale tutt’altro che rassicurante. Per cui violenza, crudeltà, scenari apocalittici e dinamiche sanguinose si ergono sulle spalle delle nostre aspettative concettuali, abbandonando così, nelle retrovie figurative, l’eventualità di un linguaggio lievemente ottimistico. Di fatto, è con presupposti simili che il compito assegnato all’artista, ovvero sollevare questi inediti, acquista ancora più rilievo, trasformandosi quasi in un dovere morale nei confronti dell’educazione collettiva. È dunque necessario spingersi oltre le esperienze consolidate per liberarsi finalmente dal giogo del precostituito. Ecco che il lavoro della reporter genovese Martina Bacigalupo rispecchia un interesse meccanico-comunicativo divergente, capace di instradare il pensiero umano verso un rinnovato bacino di conoscenze espressive. Con il progetto “Gulu Real Art Studio”, pubblicato come libro nel 2013, l’autrice ci fornisce uno spaccato della situazione politico-culturale in Uganda e, allo stesso tempo, compie una panoramica insolita sulla rappresentazione fotografica africana. Il suo intento è concentrarsi sulla ritualità quotidiana, a privilegio di una grammatica fatta di attesa e meditazione, per prendere le dovute distanze dalla brutalità contenutistica tipica dell’approccio documentario.
Tra le mura del più antico studio fotografico della città di Gulu va compiendosi un’operazione intellettuale di mutilazione fotografica. Le condizioni economiche della popolazione, talmente sconquassate dai continui tumulti governativi, rendono troppo dispendiosa persino la semplice fruizione dei servizi digitali per la produzione di foto tessere. Perciò le persone si accostano al mezzo fotografico ricorrendo a un espediente operativo che le vede posare per un unico scatto (formato 10x15cm), dal quale viene poi ritagliata, senza eccedere nei costi di stampa, la porzione di volto desiderata.
Ecco che Martina si scontra con una serie infinita di soggetti iconograficamente decapitati. Uomini, donne, bambini e piccoli nuclei famigliari appaiono deturpati dagli spettri della propria indigenza. Tuttavia gli stessi abitanti della zona le spiegano che le facce scomparse, enigma percettivo di questi rapimenti identitari, in realtà compiono una metamorfosi formale acquistando nuova vita all’interno di passaporti, nelle documentazioni per i prestiti bancari e persino nei certificati d’iscrizione a scuole e università. Pertanto, attraverso una metodologia appropriativa e contemporaneamente di stampo sociologico, Martina Bacigalupo attiva un processo khöleriano di trasformazione della realtà visiva che le consente di trasmettere, con immagini morfologicamente seriali, difficoltà e risolutezza dei cittadini nord-ugandesi. Sicché ciascuna reliquia fotografica in suo possesso divine sinonimo di una rivoluzione pacifica, combattuta nel silenzio della sala di posa. Così facendo, l’atto stesso di resistere a una condanna non soltanto visiva, ma anche sociale, conferisce ai soggetti ritratti un’aura eroica, una sorta di poetica della speranza abile a eclissarne angoscia e commiserazione.