Dal 4 novembre al 18 novembre la galleria romana Acta International ospita la mostra di Simona Filippini, a cura di Chiara Capodici, Rome LOVE. Mostra prodotta dall’Associazione Ti con Zero e inserita all’interno del festival Alla fine della città.

Dagli inizi degli anni Novanta Simona Filippini scatta fotografie della sua città, Roma, tramite il filtro della Polaroid. Ma nel tempo la città eterna è mutata, ed anche Simona è evoluta come fotografa e come persona. In mostra alla galleria Acta International di rione Monti, a cura di Chiara Capodici, sarà esposta, dal 4 novembre al 18 novembre, l’ultima tappa di questo progetto a lungo termine. Occasione per inserire questo ulteriore tassello di Rome LOVE è stata la volontà dell’Associazione Ti con Zero che ha commissionato alla fotografa romana uno specifico racconto sul XIV Municipio. Inserita all’interno del festival Alla fine della città, la narrazione visiva di Simona Filippini sul XIV Municipio prende leggermente le distanze dall’estetica ricercata, nel corpus iniziale del progetto, di una Roma che sbalordisce per la sua bellezza e per la sua antica sontuosità. La Roma immortalata da Filippini negli ultimi tre anni è una Roma sicuramente più umanizzata, complessa, sincera anche nelle criticità, vera. Il XIV Municipio compare fagocitato dalla sua natura incontaminata, dalle storie di vita dei suoi abitanti, dai suoi murales e dalle scritte impresse sul cemento, urlate al vento, distanti dall’iconica magniloquenza del Colosseo.

Partiamo dagli albori di Rome LOVE. Come e quando è nato?
Anni Novanta. Le prime fotografie sono del 1993. Io ero appena tornata a Roma dopo essere stata per quattro anni a Parigi, dove lavoravo allo studio Luce di Paolo Roversi. In quegli anni ho potuto sperimentare e prendere confidenza con la Polaroid, di tutti i formati. Ho una serie di scatti con la Polaroid anche degli anni parigini, così quando sono tornata a Roma, con l’idea in testa di come potessi raccontare la mia città con occhi nuovi, ho deciso di utilizzare uno strumento che conoscevo già molto bene. Roma, poi, in quegli anni, era una città che stava cambiando molto. Decisi, quindi, di iniziare Rome LOVE con la Polaroid anche perché avevo bisogno di un mezzo agile, che non attirasse troppo l’attenzione.
E su che quartieri ti sei concentrata?
Solitamente non mi concentro su delle zone specifiche. Mi sento più una vagabonda. Decido a seconda dell’umore e del giorno. Le prime foto, quelle del ’93, sono sicuramente quelle che hanno subito maggiormente la bellezza “più spettacolare” di Roma: il centro storico, il Tevere, vedute di Castel Sant’Angelo, i dettagli di bar d’epoca, c’è una foto del Caffè Greco per esempio.
Negli anni Rome LOVE l’ho portato avanti ad ondate, solo nel periodo estivo, soprattutto nel mese di luglio quando i miei figli, ancora piccoli, erano al campo estivo e io ero più libera.

L’estetica che traspare dalle tue fotografie è anche un’estetica sentimentale. La Roma che tu immortali non è la “Roma da cartolina”…
Totalmente. Non è un’indagine sociologica o antropologica, che invece, magari, utilizzo in altri miei progetti. In Rome LOVE appare evidente il mio trasporto nel lasciarmi guidare dalle atmosfere, dal mood del giorno, mettendo però in luce alcune tematiche per me importanti come la questione dei “nuovi cittadini” e di come loro hanno modificato la città nel suo mostrarsi. Così ho fotografato le insegne, i nuovi negozi, il modo di vestirsi. Un altro tema importante è quello delle insegne luminose, che va a toccare anche la mia storia familiare: la mia famiglia, infatti, produceva le insegne pubblicitarie e il mio compito era quello di fotografarle. Oppure il tema del notturno che nasce da un’esigenza pratica legata alla maternità, al tempo serale in cui potevo concedermi di uscire per fotografare quando mio marito tornava. Anche il crepuscolarismo delle immagini è quindi collegato a questo aspetto della mia vita. Un’altra questione su cui mi sono soffermata è “l’estetica dell’osservatore”, cioè la mia tensione a fotografare le persone che osservano Roma.

La resa di una Polaroid è una resa che si muove nella dimensione del ricordo, della memoria, della nostalgia. C’è una particolare affinità con la luce che c’è a Roma e con la sua valenza di “rovina”, di passato, di Storia?
L’estetica delle rovine e della nostalgia viene assolutamente alimentata dalla texture della Polaroid. È un aspetto su cui ci soffermiamo molto più oggi rispetto a venti anni fa, perché oggi, anche per una questione di riscoperta della memoria, si persegue volutamente questo risultato. Per quanto riguarda i soggetti, penso di averli scelti andando oltre l’estetica delle rovine di Roma. Mi sono molto concentrata anche sulle periferie, ad esempio, sulle nuove architetture, sull’estetica dei nuovi commerci e come ho detto prima sui nuovi cittadini.
Parlando proprio di quella parte di Rome LOVE non inclusa nell’estetica delle rovine, di quella parte legata più alle periferie e anche ad un tipo di fotografia più urbana, più diretta, più documentativa forse, alla Galleria Acta International esporrai le immagini prodotte negli ultimi tre anni. Un racconto visivo, commissionato dall’Associazione Ti con Zero per il festival Alla fine della città, sul XIV Municipio. Come hai prodotto questa ultima fase di Rome LOVE?
Fernanda Pessolano, presidente dell’Associazione Ti con Zero, era venuta a vedere la mostra di Rome LOVE esposta al Museo di Roma in Trastevere. Ne era rimasta colpita e così è nato il suo invito al festival. L’Associazione come vincitrice del bando triennale “Contemporaneamente Roma” – curato dal Dipartimento Attività Culturali di Roma Capitale e realizzato in collaborazione con SIAE – doveva rivolgere, nell’arco dei tre anni 2020/2021/2022, il focus di Alla fine della città sul XIV Municipio, che iniziai a indagare fotograficamente. Le fotografie che ogni anno ho realizzato sono state usate in parte per la comunicazione del festival e in parte si sono riunite nella mostra che ci sarà da Acta International.
Il XIV Municipio si è rivelato un territorio molto difficile, perché immenso, ci sono delle parti verdi infinite, e, inoltre, è molto discontinuo, attraversato da arterie stradali importantissime come via della Pineta Sacchetti, via Mattia Battistini e molto poco connotato dal punto di vista visivo. In tutto il Municipio, dal punto di vista visivo e storico, il rilievo più importante ricade sicuramente sul complesso monumentale del Santa Maria della Pietà, ex ospedale psichiatrico di Roma e attualmente sede anche del Municipio stesso, e sulla natura incontaminata. Inoltre, mi hanno colpito molto le storie di alcuni quartieri come quella della ex Borgata di Primavalle, poi diventata Quartiere Primavalle. Storie tristi e dolorose.

Le immagini sul XIV Municipio fanno parte di un’unica ed eterogenea narrazione visiva su Roma, Rome LOVE. In cosa si differenziano le prime foto degli anni Novanta rispetto a quelle commissionate dall’Associazione Ti con Zero?
Questo era appunto il mio grande cruccio: la coerenza narrativa del progetto. Avevo dei dubbi a riguardo. Ma Chiara Capodici, mia curatrice sia della mostra che del libro, che ho pubblicato nel 2014 e al quale ha lavorato anche Fiorenza Pinna, è riuscita ad estrapolare una lettura in cui emerge quella che lei definisce la mia anima “più rock”. Questa definizione mi è piaciuta molto.
Ma sei tu “più rock” o è il territorio su cui hai indagando, il XIV Municipio, che è “più rock” rispetto alla Roma che hai fotografato negli anni Novanta?
Bella domanda. Io sono più rock probabilmente perché mi rendo conto che con il tempo, dal punto di vista fotografico, sono diventata più diretta, ho meno filtri, sono più focalizzata sul mio pensiero. Ma alla fine, “più rock” non è né il territorio né tanto meno io, ma è la situazione che ha imposto questo. Il periodo storico è molto difficile e mi sono accorta che il mio sguardo è cambiato anche in virtù di questo momento. Il mio sguardo su Roma è sempre stato molto benevolente, ma ultimamente sono scioccata dal degrado, dalla povertà, dal disagio che anima la città. Ovviamente questo cambio di prospettiva influenza le mie immagini. Non posso tacere questa situazione e sicuramente focalizzarmi su un territorio periferico, con le sue criticità, ha sottolineato ancora di più questa mia evoluzione di sguardo.

Questo tuo cambio di percezione su Roma si nota prendendo come riferimento le tue amate insegne luminose. Nella prima fase di Rome LOVE fotografavi le insegne nella loro lucentezza, e nella loro bellezza estetica, nelle immagini sul XIV Municipio, invece, le scritte compaiono su muri, strade e new jersey stradali nella loro essenzialità e anche decadenza…
Assolutamente. La parte testuale in questo progetto è molto importante. L’insegna luminosa pubblicizza qualcosa, ha un senso di universalità, ma la scritta che le persone lasciano ha un altro valore estetico e visivo. Mi facevano pensare al bellissimo lavoro di Brassaï sui graffiti di Parigi.
L’immagine che, insieme all’Associazione Ti con Zero, abbiamo scelto per la comunicazione dei tre anni del festival è proprio una di queste scritte su un muretto “Ti ricordi?”. Esprime un forte concetto di memoria, una domanda così semplice, ma così potente. Quella fotografia, poi, l’ho scattata nel parco Annarella Bracci, parco intitolato a una bambina che è stata uccisa, a dodici anni, nel 1950. Fu un fatto di cronaca romana molto importante, che ha ispirato anche Visconti per un suo documentario.
Un’altra scritta ritratta è “Passa il tempo”. Mentre producevo queste immagini mi sono chiesta come la fotografia calendarizza la nostra memoria, la nostra capacità di ricordare la storia.
Comunque, ho inserito la fotografia di un’insegna luminosa anche per il racconto sul XIV Municipio, non poteva mancare: quella del ristorante Cinapoli su via Trionfale.
Raccontavi del documentario di Visconti, ma ci sono altri richiami al cinema, in questa ultima fase di Rome LOVE, vero?
Quando ho fotografato Monte Ciocci ovviamente non potevo non pensare ad Ettore Scola e al suo film Brutti, sporchi e cattivi del 1976. Un esempio cinematografico magistrale che racconta di una certa realtà romana dei primi anni Settanta: le periferie, le baraccopoli, il degrado e la povertà.

Per la parte di lavoro sul XIV Municipio hai usato spesso il formato rotondo. Perché e a cosa rimanda questo formato?
La mia proverbiale curiosità mi ha spinto a voler sperimentare un nuovo film dal formato rotondo. Lo trovavo molto divertente. Ma al di là del divertimento pensavo al Tondo Doni di Michelangelo, ad esempio, che rappresenta una rarità nella storia dell’arte e fotograficamente parlando anche a Javier Vallhonrat, fotografo di moda che negli anni Novanta fece un lavoro con il formato tondo, di cui vidi la mostra a Parigi.
Dal punto di vista compositivo è un’opportunità nuova avere uno spazio e una forma che includa tutto ma che fondamentalmente non abbia una base né un’altezza. E nelle difficoltà riscontrate nel documentare il XIV Municipio da una parte mi ha aiutato la lettura cinematografica, dall’altra il formato rotondo, dandomi una possibilità visiva di maggiore libertà.
La parte iniziale di Rome LOVE si differenzia dalle immagini sul XIV Municipio anche per come hai utilizzato il ritratto. Mentre inizialmente l’umanità che coglievi risultava volatile, non definita, tranne in qualche sporadico caso, per quest’ultima fase invece ti sei concentrata molto sul definire fotograficamente le persone che abitano il territorio.
Sicuramente nella prima fase ero interessata molto all’anima multietnica di Roma e non ho lavorato eccessivamente sul ritratto. Me ne viene in mente solo uno: quello di una donna incinta alla stazione Ostiense. Ci sono molte figure umane, magari prese di trequarti, ma non avevo la necessità di interagire completamente con loro. Invece per il XIV Municipio è stato diverso: avevo la chiara idea, soprattutto durante quest’ultimo anno, di raccontare le persone con il ritratto, intercettandole per strada, parlandoci e conoscendole. Poi effettivamente non è stato così semplice. Ero tesa a rappresentare tutta l’umanità del territorio, al di là della tematica sui nuovi cittadini che avevo trattato inizialmente. Inoltre mi sono appositamente soffermata su alcune storie specifiche, come la ragazza ritratta di profilo davanti al murales di Pasolini. Irene Spadacini. È lei l’autrice di quell’opera e l’ho volutamente cercata per questo. Volevo fotografarla. Ho letto il suo nome sul murales, tramite Instagram ci siamo scritte e poi ci siamo incontrate.

Da cosa è motivata questa differenza di approccio rispetto a prima?
Dovendo lavorare su un territorio prestabilito mi sono detta che non potevo non intercettarne i residenti, non potevo non parlare con le persone che lo abitano. Mentre all’inizio l’approccio era quello di una fotografa che se ne andava in giro senza meta e senza tempo, in questa ultima fase ho volutamente dato più importanza a un’umanità definita, quella che vive la zona. Rome LOVE, il focus sul XIV Municipio, è fatto, inoltre, anche di tutte quelle persone con cui ho parlato, ho scambiato dei momenti di racconti e storie, che però non si sono voluti far fotografare. Questo per farti capire come al di là del momento fotografico, per me, in questa ultima fase, era importante l’interazione umana.
Rome LOVE
di Simona Filippini
, a cura di Chiara Capodici
, prodotta dall’Associazione Ti con Zero
opening 4 novembre dalle ore 18:30
dal 4 al 18 novembre @
Acta International
via Panisperna 82
Orario: 15:30-19; me-sa
www.actainternational.it
www.associazioneticonzero.it