California. I viali soleggiati ornati di palme, le residenze dei divi del cinema scrutate dai turisti accovacciati sui pullman della Starline Tours, lo Chateau Marmont che illumina superbo il Sunset Boulevard. Un cocktail di troppo, piscine scintillanti e genuino, purissimo camp. Tutto ciò sintetizza quell’estetica radical-kitsch e fiabescamente decadente della cultura americana postmoderna, secondo cui l’intero Paese andrebbe fagocitato e interiorizzato come satellite di Hollywood. È in quest’universo parallelo che trova posto l’arte di Slim Aarons, classe 1916, newyorkese fino al midollo ma con un’attrazione smisurata (o forse un guilty-pleasure) per la Babilonia d’America. Nato professionalmente come fotografo di guerra – ha servito l’esercito statunitense dopo aver frequentato l’accademia militare di West Point – e ritrattista degli orrori del nazismo, grazie ad una legge morale del contrappasso Aarons sviluppa presto un’avversione per tutto ciò che secondo lui esplicita la reale bruttezza del mondo, come la fame, la miseria, la prevaricazione di un essere umano sull’altro: «Sentivo di meritare una vita più semplice e lussuosa, per compensazione degli anni passati a dormire nel fango, a schivare bombardamenti e colpi di proiettile». I trascorsi bellici hanno instillato un’ossessione estetica ben delineata, che sarebbe durata fino all’ultimo scatto.

Famosissima la legge personale su ciò che non doveva mai essere visto nei frammenti di vita da lui immortalati: niente t-shirt, niente scarpe da tennis, niente jeans. Insomma, nessun riferimento a quella Middle America incarnata da routine di provincia e sciatteria esistenziale; Aarons dopotutto non cercava più la realtà ma una rappresentazione ideale di essa, una messa in scena in grado di scimmiottarla nella versione glamorizzata. La medesima glamorizzazione di cui parlava Oriana Fallaci nel reportage sulla fauna californiana degli anni Sessanta, poi diventato un libro, I sette peccati di Hollywood: la glamorizzazione era intesa come un vero e proprio processo di fabbrica, in cui si prendeva una goffa ragazzetta arrivata dall’Illinois per poi farla diventare Kim Novak, al costo di affamarla o imbottirla di pillole. Null’altro che l’american dream.
Tutto ciò che gravitava intorno alla patina e che potesse trasmettere tristezza, ordinarietà o grigiore andava allontanato all’istante dalla fotocamera. Largo ai rampolli dell’alta società statunitense con camicie pastello, alle loro madri con taglio di capelli proprio come Jackie e ai magnati di questa o quell’industria. Nuovi ricchi che fanno cose da ricchi o, per dirla con le parole di Aarons, «Attractive peolple doing attractive things in attractive places». I luoghi rappresentano l’ennesimo feticcio visivo dell’artista, in una California, quella degli anni Sessanta e Settanta, all’epoca d’oro dell’estro architettonico. Il più celebre scatto di Aarons, dal titolo Poolside gossip, ha come location la Kauffman Desert House, voluta come buen retiro dal re dei supermercati degli anni Trenta e ideata da Frank Lyod Wright, che avrebbe fatto da apripista per ogni altra magione del mondo stellato di Palm Springs.
Quello che traspare da questo circo ovattato intriso di vuoto e paillettes sarebbe però male interpretato se non si mettesse in conto anche del caustico sarcasmo. L’intento fotografico, mai come in casi del genere, non è solo raffigurare, ma anche interpretare. L’occhio di Slim Aarons intendeva filtrare il dark-side hollywoodiano per dissacrarlo e smascherarlo. Strappandoci un sorriso sull’idea di sogno americano.