Quanti fotografi hanno influenzato l’immaginario americano? Quanti sono riusciti a condensare nelle proprie immagini l’identità a stelle e a strisce? Quanti sono riusciti a rendere le proprie fotografie simbolo di un’America senza tempo, manifestata nella quotidianità del suo vivere, rendendo la “banalità” argomento di discussione, ricerca e linguaggio? Alcuni, pochi, tra cui Stephen Shore.

Racchiudendo la sua produzione di immagini in un grande atlante identitario americano, il suo lavoro è andato sempre a braccetto con un concetto “vagabondo” di viaggio, uno sguardo che radiografava l’America, macinando chilometri delle sue strade e abbracciando democraticamente tutta la realtà che gli si palesava davanti, dalle persone all’architettura, dagli interni degli alberghi agli avanzi di cibo consumato in un fast food, dai dettagli dei salotti della middle class americana alle insegne e alle pubblicità trovate per strada. Il suo sguardo peregrinante a colori ha cambiato lo sguardo di chi dagli anni Settanta ha iniziato a vedere le sue mostre e dagli anni Ottanta i suoi libri.

La sua “nuova estetica del banale” concettualizzava l’America, rendendo i dettagli delle sue immagini archetipi di un certo sogno a stelle e strisce, ma al contempo si avvertiva la sua appartenenza, la sua presenza, la sua rispettosa partecipazione alla grande storia americana che stava raccontando. Lo sguardo frontale, spesso ravvicinato, erano dentro ad un’America che si mostrava nelle sue pieghe più intime, quotidiane, vernacolari, uno sguardo che sapeva e sa ancora molto di Walker Evans e Robert Frank.

È di qualche settimana fa la sua nuova pubblicazione, edita da MACK, TOPOGRAPHIES: AERIAL SURVEYS OF THE AMERICAN LADSCAPE, una visione dall’alto, tramite l’utilizzo del drone, di un’America microscopica, sulla cui superfice risalgono evidenti i segni dell’intervento umano, visibili solo grazie al nuovo sguardo “a volo di uccello” di Shore. Se prima, con American Surfaces o Uncommon Places, il fotografo di New York immortalava il ventre americano, rendendo simboli le espressioni del suo vivere quotidiano, ora, con questa sua nuova produzione le sconfinate distese americane, industrializzate o meno, appaiono come le pareti di una caverna su cui gli uomini preistorici hanno inciso i primi graffiti. Sulla loro superfice è scritta la storia dell’America, della sua urbanizzazione, della sua cementificazione, della sua civiltà industriale, ma anche dei suoi paesaggi incontaminati, dei solchi delle sue strade di campagna che ricordano lo Snake River di Ansel Adams, magari meno carico di pathos visivo, mentre avanza verso la montagna, definendo i suoi margini tramite la boscaglia sulle sue rive. Ma a guardarli bene, a guardarli da questa prospettiva “divina”, anche gli snodi delle superstrade americane, gli agglomerati urbani di cemento e mattoni sembrano far parte di un’orchestrazione naturale, una natura sicuramente antropocentrica, ma inserita comunque all’interno di un disegno molto più complesso e dettagliato del ventre di uno stato, che ne mostra la sua architettura, la sua conformazione strutturale.

E così lo sguardo si perde oltre i confini di quelle città che Shore aveva raccontato dal loro dentro, arrivando fino alle montagne in lontananza, alle acque dei fiumi dietro la valle, o più banalmente ai giardini del retro delle case, all’orizzonte che spesso si manifesta nella sua lineare orizzontalità, stringendo tutto il paesaggio in un abbraccio azzurro. Se prima Stephen Shore ci aveva abituato alle sue radiografie del “comune americano”, le immagini di TOPOGRAPHIES: AERIAL SURVEYS OF THE AMERICAN LADSCAPE vanno, invece, a scavare nella dimensione topografica del paese, un’indagine forse più oggettiva e meno vicino all’umano palpitante e più alle tracce del suo intervento, del suo agire sul paesaggio e il territorio.

Una mappatura rivelatrice che si avvale, per quanto riguarda la progettazione del libro edito da MACK, di apposite didascalie di localizzazione, con cui poter riconnettere la dimensione visiva su carta con una geografia viva, reale. Per l’oggettività del metodo di indagine messo in atto da Shore la pubblicazione risulta più chiaramente un proseguimento della ricerca dei New Topographics, a cui il fotografo americano aveva partecipato con la mostra New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape del 1975 al George Eastman House’s International Museum of Photography di Rochester, a cura di William Jenkins. Sette fotografi (Robert Adams, Lewis Baltz, Bernd and Hilla Becher, Frank Gohlke, Nicholas Nixon e Stephen Shore) chiamati a documentare fotograficamente la tensione paesaggistica tra l’opera della natura e quella dell’uomo, con immagini asciutte e neutre, “ridotte a uno stato essenzialmente topografico” scriveva Jenkins. Quel minimalismo documentario era rivolto a trasmettere informazioni visive a chi osservava quelle immagini, senza insinuare, nel messaggio, opinioni o alcuna emozione.

È così anche per TOPOGRAPHIES: AERIAL SURVEYS OF THE AMERICAN LADSCAPE, con l’innovazione tecnologica della ripresa aerea del drone. Seguendo le immagini del libro si accompagna il moto aereo di Shore, con prospettive sempre mutevoli, che a volte si allontanano dal paesaggio dandone una visione globale, talmente vasta che sembra scorgersi anche la curvatura della Terra, altre volte invece il “suo” sguardo meccanico si fa più radente ed emergono in superfice i dettagli, a volte anche qualche persona che si manifesta come il piccolo personaggio di un plastico, posizionato ad hoc per suggerire l’elemento di verosimiglianza con il reale. Si tratta sempre di peregrinazioni, di viaggi, di immagini prodotte nel fluire di un percorso attraverso l’America, e se si guarda bene quell’iconicità americana a cui Shore ci ha abituato non è estromessa nemmeno da questa sua ultima opera. L’America è lì, con la sua bandiera e tutto il suo esteso immaginario, stavolta, visto dall’alto.

TOPOGRAPHIES: AERIAL SURVEYS OF THE AMERICAN LADSCAPE
Stephen Shore
MACK, 2023
208 pagine,
30,5 x 25,2 cm.
Copertina rigida.
€ 75
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