di Maurizio Fiorino
Quando Txema Salvans vinse una borsa di studio (o un grant, come lo chiamano negli Stati Uniti) non ci pensò due volte ad accettarla. «Anche se avevo studiato anni per diventare un biologo: era il mio sogno, la mia passione sin da bambino» racconta. Poi salì su un aereo e andò a studiare alla prestigiosa International Center of Photography di New York, mecca di ogni fotografo che vuol definirsi tale. Alla fine degli studi, però, quando venne contattato da un photo editor del New York Times che gli offrì un contatto di lavoro, se ne ritornò in Spagna, a Barcellona, dov’è nato e cresciuto e dove tutt’oggi ha il suo studio fotografico. «Non so dire se ho perso la più grande occasione della mia vita. Penso di no» dice, in videoconferenza, alla vigilia del lancio mondiale del suo quinto libro fotografico, Perfect Day, edito dall’inglese Mack.

«Sai cosa? Volevo solo conoscere e raccontare la mia terra. È come quando i fotografi americani – non tutti, certo, – vengono da noi in Europa e scattano foto per una settimana intera, o anche un mese. Le immagini sono belle, non c’è dubbio, ma è come se non cogliessero le sfumature, le piccole cose. E se non cogli quelle, come fai a crescere? Io sono nato e ho deciso di vivere qui, in mezzo al Mediterraneo. Sono catalano. E devo parlare la stessa lingua del soggetto e del contesto in cui mi trovo. Se no, alle foto, è come se mancasse l’anima».

Dimenticate subito le proteste di piazza, i referendum, gli arresti degli ultimi decenni. La Catalogna di Salvans è un’altra roba. In realtà, le immagini di Perfect Day sono l’ultimo capitolo di un progetto che va avanti da più di quindici anni e che ci parlano un’umanità isolata, a debita distanza (sociale) ben prima dello scoppio del coronavirus. Per realizzarle, Salvans ha utilizzato per la prima volta una Cambo Wide, ovvero una macchina che solitamente è usata dai fotografi d’architettura più esigenti e che gli ha consentito di creare un genere di foto che mischia architettura, arte, giornalismo, antropologia, e che oggi è diventato il suo marchio di fabbrica. «Ho iniziato a lavorare con questo apparecchio perché mi avevano commissionato un lavoro sulla prostituzione femminile in alcune zone della Catalogna» svela. «Il giornale aveva bisogno di due o tre foto e, nel momento stesso in cui ho accettato il lavoro, ho giurato a me stesso che non avrei mai scattato le solite immagini d’inchiesta, sai, quelle un po’ da voyeur. Volevo raccontare il contesto, più le che singole storie».

Per portare a casa le potentissime immagini di quel lavoro – finite poi in un libro poetico e struggente dal titolo The Waiting Game – Salvans ha un’idea geniale: decide di indossare un gilet catarifrangente e di montare la macchina fotografica su un treppiedi. «Nonostante fossi in un certo senso la persona più visibile di tutti, nessuno mi ha dato fastidio. Né la polizia, né le prostitute, né i pappa» racconta. Per immortalare i soggetti di Perfect Day, ha usato lo stesso metodo. «Non sono immagini anomale o costruite» ci tiene a precisare. Seppure, a prima vista, davanti alle sue fotografie, si rimane straniti.
«Si tratta di gente che, nei primi weekend estivi, non potendo permettersi spiagge private o cinema o altri divertimenti a pagamento, occupa spiazzi polverosi ma deserti, parcheggi di ipermercati, cantieri in pausa, piazze vuote e in cui la vita, in quei fine settimana di aprile, sembra essersi dimenticata di esistere», spiega il fotografo di Barcellona che, nel suo paese, è definito una sorta di Martin Parr nazionale. «Per esempio, ho scattato tante foto nel parcheggio di un Carrefour alle porte di Barcellona. La gente, strano a crederci ma è così, ci va a prendere il sole o a insegnare ai propri figli come andare in bici, piuttosto che a giocare con le macchinine elettroniche. Qualcuno, guardando le immagini, può domandarsi: ma perché quella gente sta in un parcheggio? Cosa fa? Beh, quando l’ho chiesto, qualcuno mi ha risposto, semplicemente, che è meglio stare lì che chiusi in casa».

Per scattare le immagini di Perfect Day, Salvans ha trascorso le ultime primavere sul suo mini-van. «Iniziavo a scattare a Pasqua e finivo intorno ai primi di giugno. Avevo con me un calendario, e con una penna rossa sottolineavo tutti i giorni in cui ero in viaggio a far foto. Non mi interessava ciò che accadeva intorno a me nel frattempo. Se c’era un amico che si sposava, beh, buon per lui. La mia famiglia sapeva che in quei giorni segnati con la penna rossa, io non esistevo» dice.
La gente fotografata non ha mai dato segni di fastidio o rabbia, quasi avvertisse sin da subito che a Salvans, che si considera un antropologo piuttosto che un’artista, interessava principalmente il contesto. «Proprio come in The Waiting Game, dove i visi delle prostitute neanche si vedono. Penso che più sia complessa la liturgia nel fare la foto, meno la gente sembra arrabbiarsi. Forse se gli punti un telefonino addosso si infastidirebbe, ma vedendomi con un gilet giallo e una macchina fotografica tecnica su un treppiedi, pensa che non li stia nemmeno guardando. È come se non ci fossi» conclude. «Poi, vabbè, a volte per fare delle foto mi sono finto corrispondente di riviste russe o giapponesi. Ma questa è un’altra storia».