La fotografia e il teatro, pur essendo due linguaggi differenti di rappresentazione, hanno molti punti di contatto; più di quanto si possa immaginare. La differenza risiede nella loro stessa natura: il teatro, percepito come insieme di fuochi vitali, permette all’uomo, in comunione con lo spazio e i suoni, di consumarsi nell’attimo della finzione del “qui e ora”; la fotografia, invece, nel silenzio della sua parola consegna l’immagine all’eternità. In entrambe le pratiche, uomini e oggetti vengono messi su di un palcoscenico.
La fotografa russa Victoria Ivanova, nel suo progetto Still Life Stories, ci dimostra come queste due realtà, pur nell’antitesi dei loro principi fondativi, riescano a cerare una narrazione brutale e profonda dell’uomo, e della sua vita. Tutti i suoi personaggi (pere, mollette, scacchi) recitano fingendosi esseri umani, mettendo in scena l’ambiguità, e l’oscurità, della nostra esistenza.
Un processo creativo, complesso e intimo, che traendo spunto dai dettagli del mondo si tramuta in racconto corale. In queste fotografie nulla è lasciato al caso, sono visioni meditate e studiate con estrema attenzione per far sì che ogni singolo dettaglio possa evocare molteplici riflessioni.
L’utilizzo del bianco e nero, così intenso e delicato, sottolinea la teatralità drammatica del senso della scena. L’unione tra la fantasia e la realtà, il teatro e la fotografia, nel lavoro di Victoria Ivanova, svela tutta la sua forza sovvertitrice.
Victoria Ivanova, classe 1984, inizia a fotografare prestissimo, quando suo padre le regala la sua prima macchina fotografica a pellicola. Si laurea in Scienze economiche e lavora come insegnante e nell’ambito pubblicitario, ma la fotografia occupa un posto importante nella sua vita, infatti mi racconta: «Attraverso le mie fotografie cerco di raccontare delle storie, e per farlo metto in scena un teatro degli oggetti inanimato. Tutti i miei oggetti recitano, anzi evocano, scene della vita umana».
Paola Mattioli, fotografa laureata in filosofia con Enzo Paci, è una delle voci più impegnate e intellettuali del panorama artistico italiano. L’incontro in gioventù con Ugo Mulas, del quale diverrà assistente, segnerà profondamente la sua carriera artistica. Il suo obiettivo fotografico, sempre attento ai cambiamenti della società contemporanea, ci consegna uno sguardo personale sul mondo che ci circonda. L’abbiamo intervistata.
Paola Mattioli, Immagini del no / 18, 1974
Definirti semplicemente fotografa è riduttivo. Tu come descriveresti? Fotografa va benissimo, autrice se vuoi… nel senso di “augere”, far crescere, aggiungere la propria voce…
Una volta hai utilizzato il termine “fotografia saggistica” per descrivere il tuo approccio stilistico. Che tipo fotografia è la tua? La mia fotografia non è assimilabile al puro reportage, ma è come un piccolo seme che cresce e si sviluppa, seguendo i suoi tempi e i suoi ritmi. L’idea creativa, in questo modo, viene resa concreta attraverso la sedimentazione delle esperienze che hanno sviluppato in me nuove forme di senso. A proposito di alcune fotografie che mi era capitato di fare al funerale di Krusciov (a Mosca, nel 1971) mi è venuto da dire che quelle immagini non avevano avuto una destinazione giornalistica – che sarebbe stata anche possibile – perché il lavoro che stavo portando avanti, e che in fondo sto ancora intrecciando, riguarda una fotografia con un significato un po’ diverso dalla rappresentazione diretta della realtà̀. È uno sguardo un po’ laterale, un po’ in seconda battuta, a seguito di una riflessione. In questo senso penso che si possa definire “saggistica” una fotografia che non è reportage, ma che si avvicina di più al pensiero.
Nella tua ricerca artistica è molto evidente la vicinanza al mondo della scrittura, come nel tuo celebre progetto Le immagini del no, un lavoro che possiamo definire anche “testo visuale”. La mia domanda allora è, quali rapporti intercorrono tra immagine e parola? Partiamo dall’inizio, il progetto Le Immagini del no, realizzato a quattro mani con Anna Candiani, nasce in un momento storico e politico molto significativo per l’Italia, vicino alla campagna che ha preceduto il referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio, svoltosi nel maggio del 1974. In quell’occasione non mi sono concentrata sulle manifestazioni o sugli esseri umani, ma sui veri protagonisti della storia, quelli che veramente avrebbero deciso le sorti del nostro destino: le parole. Milano era invasa dalla parola No, la si vedeva in ogni luogo e in ogni dove. Ho capito che per trasformare in forma reale la potenza simbolica di quella parola, avrei dovuto portare il mio obiettivo fotografico all’interno delle pieghe della scrittura, senza rinunciare alla documentazione storica della memoria. Tornando alla domanda specifica, le immagini, per loro stessa natura, non possono essere paragonate a dei testi, e per questo motivo la loro “traduzione” non può avvenire entro schemi linguistici. Sia l’immagine che la parola, nella loro diversità, non sono sempre specchi che riflettono la realtà del mondo, ma sono, anche, delle pratiche che ci permettono di sviluppare mondi alternativi e possibili. Per quanto mi riguarda, mi diverto molto ad utilizzare meccanismi letterari per creare molteplici piani interpretativi; un gioco che crea connessione con l’osservatore.
Paola Mattioli, Immagini del no / 7, 1974
Esistono delle regole per decodificare un’opera fotografica?
No, fortunatamente non esistono. Non ci sono formule che ci consentono di interpretare perfettamente l’arte, come per tutte le cose affascinanti della vita. Se esistessero delle scorciatoie per svelare i segreti di ciò che ci attrae, come può esserlo una fotografia, una scultura, una poesia, tutto l’impegno profuso nel crearlo sarebbe vano.
Paola Mattioli, Giuseppe Ungaretti / 11 , Salsomaggiore 1970
Hai realizzato il ritratto più celebre e intenso del grandissimo poeta Giuseppe Ungaretti. Come avvenne quell’incontro, e, soprattutto, qual è il tuo approccio al genere della ritrattistica? L’incontro con Giuseppe Ungaretti è stato importante. Ho fotografato il grande poeta nel maggio del 1970. Lui aveva 82 anni, e io 22. Stavo muovendo i primi passi nella fotografia. Come avvenne l’incontro? Un editore d’arte, Luigi Majno, aveva bisogno di un ritratto di Ungaretti da inserire in originale tra le pagine di una delle sue raffinate cartelle dedicate ad arte e poesia, in questo caso abbinato a Sonia Delaunay. Avevo pochissima esperienza e il rodaggio allo studio di Ugo Mulas alle spalle. Posso affermare, quasi con certezza, che ha fatto tutto lui. Ho testimoniato il suo spettacolo: un essere complesso che conteneva in sé stesso gli opposti della vita; tristezza e allegria, vecchiaia e giovinezza. Appena sviluppate, non con poca ansia, le mostrai a Mulas che mi disse: «Belle, bellissime, bisogna proporle subito a qualcuno». Chiamò un amico giornalista che rispose freddamente: «Signorina, Ungaretti ci servirà solo il giorno in cui muore». Il destino volle che da lì a poco Ungaretti morì: tutti cercavano il mio ritratto. Enzo Paci, che ebbe un lungo scambio epistolare con il poeta, mi propose di pubblicare con lui, da Scheiwiller, un volume con il loro carteggio, le mie fotografie e una sua prefazione. Un lavoro indimenticabile. A me piace molto realizzare ritratti. Per me un ritratto è una proiezione del referente; in quel breve momento cerco di instaurare un dialogo, una connessione di luce, tra lo sguardo che ho davanti e il mio sguardo, e registro questa “conversazione”. Ovviamente nel ritratto ci sono anche io, la mia presenza la si ritrova nell’ambientazione. Il contesto, sia esso in esterni o in un interno, mi aiuta molto a raccontare piccole cose, dettagli della persona che ho di fronte.
Paola Mattioli, Carcere/8, Casa Circondariale di Monza 1999
Cosa ti rende felice della fotografia?
Il fatto di avere in mano tutto il processo, dal progetto iniziale alle stampe finite.
Tu sei stata molto attiva all’interno del movimento femminista. Oggi quanto può essere importante il contributo della fotografia alla causa femminile?
Molto, perché mostra quanto lo sguardo delle donne sia davvero diverso da quello degli uomini. Non migliore, diverso.
Testimone dei conflitti della contemporaneità, ma anche degli effetti del cambiamento climatico, Paolo Pellegrin è il protagonista dell’esposizione L’orizzonte degli eventi, aperta al pubblico fino al 7 gennaio 2024 a Le Stanze della Fotografia, iniziativa congiunta di Marsilio Arte e Fondazione Giorgio Cini. Organizzata da Marsilio Arte e da Studio Pellegrin, la mostra è curata da Denis Curti e Annalisa D’Angelo e realizzata in collaborazione con Magnum Photos. In questi mesi è previsto un calendario ricco di iniziative che prevede visite guidate con i curatori, laboratori didattici e laboratori per le scuole.
Gli oltre 300 scatti, incluso un reportage per la prima volta in mostra sull’Ucraina e altre immagini inedite, coprono l’arco di tempo dal 1995 al 2023 e raccontano l’attività sul campo che ha portato Paolo Pellegrin a diventare uno dei più importanti fotografi internazionali. Nato a Roma nel 1964 e membro dell’agenzia Magnum dal 2005, Pellegrin si è distinto da subito per l’umanità del suo sguardo, caratteristica che ha reso unici i suoi lavori e che gli ha permesso di andare sempre al di là della superficie.
Pluripremiato – dal W. Eugene Smith Grant in fotografia umanistica al Photographer of the Year, passando per il Robert Capa Gold Medal Award – Pellegrin ha prima studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma e poi fotografia all’Istituto Italiano di Fotografia. Pubblicato da The New York Times, TIME, Newsweek e molti altri giornali e riviste, ad agosto il fotografo approda a Venezia con un’antologica che spazia da servizi realizzati nelle zone di drammatici conflitti, come in Iraq e a Gaza, a quelli su problematiche ambientali, come lo tsunami in Giappone e gli incendi in Australia, fino agli scatti sui cambiamenti climatici in corso, immortalati nelle immagini che ritraggono l’Antartide.
«Ovunque io sia, mi considero sempre un ospite e, in cambio, sono quasi sempre trattato come un ospite. La macchina fotografica diventa allora un passaporto straordinario» dice Paolo Pellegrin che a Venezia sarà presente anche con i suoi reportage negli Stati Uniti, i rifugiati a Lesbo e molte altre missioni che il fotografo ha compiuto nel buco nero della storia raccontando un’umanità che pochi colgono e raggiungono.
La complessità dei temi trattati e l’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità, trovano la sua casa ideale a Venezia, città fragile che ben rispecchia le caratteristiche dei luoghi attraversati da Pellegrin. Le sue immagini restituiscono la forza di un’umanità che si manifesta nella grandezza della natura, svelando uno dei temi cruciali della contemporaneità, la relazione tra l’uomo e l’ambiente naturale.
Il Photofestival diventa maggiorenne e inaugura la sua diciottesima edizione. Milano, città dinamica e sempre contemporanea, è pronta ad accogliere la nuova edizione dell’evento che celebra la bellezza e l’arte della fotografia. Il tema di questa edizione: Aprirsi al mondo. la Fotografia come impegno civile. La fotografia ha il potere di raccontare storie che altrimenti rimarrebbero inosservate, di dare voce a coloro che non possono farlo da soli e di sensibilizzare il pubblico sugli interrogativi fondamentali che affrontiamo come società. È proprio questa dimensione sociale e civile della fotografia che il Photofestival, sotto la direzione di Roberto Mutti, vuole esplorare e diffondere.
Dal 15 settembre al 31 ottobre, nell’area metropolitana di Milano e in alcune città lombarde, quali Bergamo, Lecco, Monza e Brianza, 142 mostre dislocate in oltre 100 spazi espositivi pubblici e privati, occuperanno gli spazi urbani. Oltre alle mostre fotografiche, il festival propone anche conferenze e dibattiti che coinvolgono fotografi, artisti e esperti del settore. Questi eventi mirano a promuovere la comprensione e lo scambio di idee tra i partecipanti, favorendo così un dialogo aperto sulla fotografia come strumento di approfondimento e condivisione. La novità di quest’anno è l’ulteriore ampliamento delle modalità di fruizione dei contenuti: accanto alla possibilità di visitare le mostre virtualmente e in maniera immersiva attraverso la galleria: “Virtual Photofestival” accessibile dal sito dell’evento, è introdotta la mostra in cartolina, un nuovo strumento espositivo che consente di proporre la fotografia negli spazi urbani più svariati. Entrambe le iniziative sono state realizzate in collaborazione con il main partner photoSHOWall.
Il programma di questa edizione mira a mescolare generi, stili e autori, alternando grandi nomi – Maria Vittoria Backhaus, Luigi Ghirri, Mario De Biasi, Robert Doisneau, Enrico Cattaneo, Sebastião Salgado, Piero Gemelli, Romano Cagnoni, Virgilio Carnisio, Fabio Borquez – a nuovi talenti emergenti nel campo della fotografia. La città si trasformano così un luogo di incontro e scambio culturale, dove artisti e appassionati di fotografia potranno connettersi e confrontarsi.
Dopo la pausa estiva, Still riparte con una nuova stagione espositiva e presenta la mostra Les Voyages Intérieurs di Acyle Beydoun, a cura di Alessio Fusi.
Oltre 100 immagini esposte propongono i racconti visivi di Acyle Beydoun, che sono deliberatamente il frutto di una matrice autobiografica. Tuttavia, seppur abbracciando l’autenticità di un percorso individuale, puntellato da brandelli diaristici, le sue fotografie riescono a svincolarsi dalla sfera personale ed esplodere in tutta la loro universalità comunicativa. A questo proposito Simone de Beauvoir, tra le pagine del saggio intitolato “Per una morale dell’ambiguità”, ci ricorda che: «Una delle funzioni dell’arte è fissare in modo duraturo un’appassionata affermazione di esistenza. […] Raccontando una storia, rappresentandola, la si fa esistere nella sua singolarità con il suo inizio, la sua fine, la sua gloria o la sua ignominia. Ed è così che in verità si deve viverla. Nell’arte gli uomini esprimono il loro bisogno di esistere in modo assoluto». Nel lontano 1947 la filosofa francese utilizza quindi queste parole per compiere un parallelismo fattuale tra la decadenza storica dell’uomo e la sua necessità di lasciare un segno postumo, una traccia utile a qualificarne la virtù ereditaria.
In questo maniera la femminista d’oltralpe sferra un colpo riformista al cuore della psiche collettiva e alle viscere delle sue sovrastrutture, andando così a provocare, in chiunque le legga, un totale ripensamento delle condizioni di esistenza terrene. Si tratta dunque di una volontà intenzionale, mirata a conquistare la libertà, anziché un processo di soffocamento succube della caducità degli eventi. Perciò, oggi, a quasi ottant’anni di distanza da questa impeccabile scissione intellettuale, e traslandola all’interno di una società creativa ormai satura di contenuti, ne riconosciamo la valenza demistificatoria. Di fatto, l’identità frammentata di Acyle, eretta sulle ceneri di parabole gitane disegnate tra Beirut, Abidjan (Costa d’Avorio), Sidney e Milano trova una pacifica collocazione all’interno di un mosaico espositivo e risulta pertanto libera. Un’esperienza tangibile, attraversabile, nonché una sorta di bacino emozionale dal sapore mistico che consente ad Acyle di regalarci un accesso illimitato ai dedali della sua memoria. Attraverso una grammatica trasversale, in bilico tra sogno e realtà e operativamente affine alle allegorie spirituali del fotografo bahaiano Mario Cravo Neto, Acyle ci permette di scavare nell’anima del dislocamento geografico e dell’abbandono relazionale. Ragion per cui il suo obiettivo poliedrico, supportato da un approccio espressivamente psichedelico, restituisce gioie e dolori di uno stare al mondo condiviso.
All’atto pratico macerie grafiche di crudi scenari post-bellici, tipici della fotografia documentaria, grida rivoluzionarie e paesaggi umani intrisi di vivace concettualità si susseguono senza esitazione quasi manovrati da un moto di ribellione espressiva; una sorta di inondazione iconografica abile a frantumare i muri della normalità percettiva. Come una giovane Shirin Neshat, posseduta da una estati cromatica, Acyle si immerge nelle contraddizioni sociali, nel proibito, nella provocazione e nell’erotismo dimostrando di conoscere con esattezza la potenza sovversiva insita nella politicizzazione dello strumento fotografico. Per l’autrice l’utilizzo della fotocamera, che sia essa digitale, analogica oppure artigianale, sottende un costante processo di messa in discussione delle nostre certezze. Un culto dell’immagine che risponde a un unico credo narrativo: l’introspezione patologica.
Ecco che volti scomposti, ritagli e sovrapposizioni cartacei, incursioni materiche e infine dolci dediche calligrafiche diventano simbolo dell’emotività umana. Un panorama utopico in cui luci taglienti, oscurità e pulsioni viscerali scandiscono il percorso convulso della nostra contemporaneità.
Dal 20 settembre 2023 al 21 gennaio 2024, Palazzo Reale a Milano ospita JIMMY NELSON. Humanity, una mostra fotografica, promossa da Comune Milano – Cultura, prodotta da Palazzo Reale e Skira Editore, in collaborazione con la Jimmy Nelson Foundation, curata da Nicolas Ballario e Federica Crivellaro. Attraverso 65 fotografie di grandi dimensioni (alcune di 2×3 metri), appartenenti ai cicli più famosi della produzione di Nelson, la mostra documenta l’evoluzione creativa dell’autore britannico, che ha trascorso la vita viaggiando per il mondo e fotografando alcune delle culture indigene più a rischio di scomparsa, raccontando gli usi e i costumi tradizionali che si sono preservati in un pianeta sempre più globalizzato e facendo emergere anche le loro emozioni.
Inizialmente attratto dalle culture indigene come custodi di antiche saggezze, esempi di resilienza e di radicamento, nel corso degli anni, il fotografo ha compreso quanto il suo lavoro potesse mettere in discussione e dissipare i preconcetti che classificavano queste etnie. Con le sue fotografie, Jimmy Nelson celebra la diversità culturale incontrata nei suoi viaggi a contatto con le miriadi di comunità della Papua Occidentale, del Tibet, dell’Africa, della Siberia, del Bhutan o di altre zone del pianeta, e invita lo spettatore a vedere il mondo attraverso una diversa prospettiva, incoraggiandolo ad accogliere e ad apprezzare la bellezza intrinseca di tutti come parte integrante della grande famiglia umana. Una delle cifre espressive tipiche del suo lavoro è rappresentata dai ritratti. Nei lunghi soggiorni nelle zone più remote della terra, Jimmy Nelson stabilisce un profondo legame con le persone che vi abitano, prestando meticolosa attenzione alle caratteristiche culturali delle comunità che ritrae, enfatizzando l’unicità e la bellezza di ognuna. Le sue composizioni sono sinfonie visive, dove l’elemento umano è armonizzato con l’ambiente naturale. Le sue immagini ritraggono di frequente membri anziani delle comunità, i cui volti portano i segni del tempo e di una vita di esperienze, come nella fotografia dell’anziana signora Inuit. Numerosi ritratti di Jimmy Nelson mettono in evidenza la forza e la bellezza delle donne come quello della ragazza kazaka, potente simbolo di emancipazione femminile. I suoi scatti testimoniano come anche nei riti tradizionalmente maschili, ad esempio la caccia con l’aquila, le donne stiano rompendo le barriere di genere.
Il profondo rapporto che lega l’umanità e la natura è un altro aspetto fondante dell’arte di Jimmy Nelson. Gli sfondi, siano essi valli, montagne, pianure o corsi d’acqua, avvolgono le persone ritratte. Questi soggetti riescono inoltre a trasmettere un senso di profondo rispetto, quasi una reverenza per la natura, diventando nelle immagini del fotografo inglese simboli della difesa dell’ambiente e comunicando l’importanza di pratiche sostenibili per la conservazione della natura. Spesso gli scatti di grande formato raffigurano gruppi di persone riunite, in piedi accanto o sopra alberi alti e saldamente radicati, che simboleggiano forza e stabilità e fungono da sfondo dove riecheggiano l’orgoglio e la fiducia espressi dalle persone che posano per il suo obiettivo. Le opere di Jimmy Nelson richiedono una enorme abilità tecnica e insieme un esercizio di pazienza. Le scene corali comportano il coordinamento di una moltitudine di persone, molte delle quali poco avvezze alla macchina fotografica, che devono rimanere immobili per alcuni secondi.
La perfezione stilistica delle sue fotografie è frutto di lunga ricerca e sperimentazione. Prendendo a esempio due maestri come Richard Avedon e Irving Penn, Jimmy Nelson si avvicina ai suoi soggetti, prestando attenzione ai dettagli, utilizzando esclusivamente la luce naturale e dedicandosi a manifestare l’autentica essenza delle culture che incontra. Dopo lunga sperimentazione con la fotografia analogica, l’artista ha cominciato a utilizzare un banco ottico di grande formato (10×8) in titanio, per poterlo trasportare con facilità – anch’esso esposto a Palazzo Reale – che gli garantisce una qualità d’immagine e una risoluzione eccezionali. Questo ha segnato una tappa significativa nella sua evoluzione artistica, avvicinandolo al processo di creazione di immagini che assomigliano a dipinti. Una selezione di questa serie di fotografie 10×8 è esposta per la prima volta al pubblico proprio in questa occasione, insieme a delle installazioni polittiche che segnano un nuovo modello espositivo dell’artista.
Arthur Schopenhauer, filosofo tedesco del XIX secolo, ha formulato una preziosa riflessione sulla nostra percezione del mondo quando ha affermato:«Ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo». Questa frase è un invito a riflettere sulle nostre limitazioni umane e sulla nostra tendenza a restringere i confini della realtà sulla base delle nostre esperienze personali. Siamo creature che si affidano alla vista come senso primario per comprendere il mondo circostante. Gli occhi raccolgono informazioni dal nostro ambiente, che poi vengono elaborate e interpretate dal nostro cervello. Eppure, nonostante i progressi nella scienza e nella tecnologia, la nostra capacità di percepire il mondo è limitata. I raggi di luce che possiamo vedere sono solo una piccola parte dello spettro elettromagnetico, e quello che percepiamo come realtà è solo una proiezione della nostra coscienza.
Spesso, facciamo l’errore di considerare le nostre prospettive personali come la verità assoluta. Abbiamo la tendenza a credere che tutto ciò che non possiamo vedere o comprendere non esista o sia insignificante. Ma, se guardiamo al di là dei nostri confini visivi, troveremo un mondo ricco e complesso che non possiamo afferrare completamente con i nostri occhi soli. Così come un obiettivo fotografico ci mostra solo una porzione limitata della realtà circostante, così anche la nostra esperienza visuale riflette solo una parte ristretta della vastità dell’esistenza. Siamo propensi a credere che ciò che percepiamo sia l’unica verità, ignorando che vi è un intero mondo al di là dei nostri occhi. La prospettiva umana, come quella del fotografo, è influenzata dai fattori soggettivi, dalle emozioni, e dalle circostanze personali. Siamo ingannati dalla convinzione che ciò che vediamo sia l’intera verità, quando in realtà si tratta solo di una piccola finestra su un’infinita molteplicità di possibilità.
La fotografa Diane Meyer, con il suo progetto, in continuo sviluppo, That Might Otherwise Be Forgotten, analizza i limiti dell’esperienza visiva della fotografia attraverso l’atto del cucire. In queste immagini, il ricamo a punto croce viene cucito direttamente su un archivio di fotografie di famiglia e di viaggio dell’artista. Diane Meyer, mi racconta: «Nelle immagini presentate, ho utilizzato il ricamo a punto croce direttamente su vecchie fotografie di famiglia e di viaggio, rappresentando diverse fasi della mia vita. Attraverso questa tecnica, le porzioni delle immagini vengono smontate e ricomposte con fili cuciti a mano, formando una struttura a pixel. Man mano che il ricamo nasconde parti dell’immagine, emergono piccoli dettagli apparentemente insignificanti, mentre l’immagine generale e il suo contesto vengono cancellati. Questo progetto esplora come le fotografie possano plasmare e spesso sostituire i ricordi, e come trasformano la nostra storia personale in oggetti nostalgici che oscurano la comprensione oggettiva del passato. Inoltre, tiene conto di come l’immagine digitale abbia influenzato questo rapporto tra fotografia e memoria. I ricami assumono l’aspetto di pixel, creando un collegamento tra l’oblio e la corruzione dei file digitali».
Le fotografie cucite di Diane Meyer esplorano il concetto della memoria, della visione, dell’oblio e del passare del tempo. Le sue immagini spesso ritraggono scene urbane o paesaggi naturali, ma sono intrise di un senso di malinconia e di una sensazione di perdita. Attraverso l’utilizzo delle cuciture, Meyer crea una sorta di velo che oscura parzialmente o completamente le immagini. Questo effetto di “sommerso” fa eco alle ferite personali e collettive che il tempo può infliggerci. Ogni punto di cucitura in queste opere d’arte è stato eseguito a mano da Diane Meyer. Osservando da vicino queste fotografie, si possono notare i dettagli di ogni punto, il filo che crea strisce e ricami sottili. Questa attenzione ai dettagli non solo dimostra maestria tecnica, ma aggiunge anche un ulteriore livello di significato alle immagini. Le cuciture diventano simbolo del tempo trascorso, di ciò che è stato nascosto o dimenticato. Le cicatrici sulle immagini stesse diventano un modo per imbattersi nella vulnerabilità e nell’inevitabilità dell’oblio.
Diane Meyer è cresciuta nel New Jersey e ha conseguito un BFA alla New York University e un MFA alla University of California, San Diego. Attualmente vive a Los Angeles dove è docente di fotografia presso la Loyola Marymount University. Tra le mostre personali si ricordano quelle alla Klompching Gallery, NYC; al Griffin Museum of Photography, Massachusetts; al 18th Street Art Center, Santa Monica; alla AIR Gallery, NYC, alla Society for Contemporary Photography, Kansas City; al Festival Encontros da Imagem, Portogallo e alla Gryder Gallery, New Orleans. Il suo lavoro è stato incluso in numerose mostre collettive negli Stati Uniti e all’estero, tra cui quelle al George Eastman Museum, Rochester; alla Robert Mann Gallery, NYC; alla Regina Anzenberger Gallery, Vienna; al Brattleboro Museum of Art, Vermont; all’Hood Museum, NH; alla Kunstagentur Dresden; Große Rathaus, Landshut, Germania; Diffusion International Photography Festival, Galles; Schneider Gallery, Chicago; Field Projects, NYC; Fotogalerie Friedrichshain, Berlino; Galerie Huit, Arles; Susan Laney Contemporary, Savannah; Marshall Contemporary, Los Angeles e Flowers Gallery, Londra. Le sue opere sono presenti nelle collezioni permanenti del George Eastman Museum, del Clarinda Carnegie Museum, dell’Hood Museum e del Museum of Contemporary Photography di Chicago. È rappresentata dalla Klompching Gallery di New York.
La Fondazione Capri, che dal 2009 organizza mostre di grandi artisti della fotografia, che nel corso degli anni hanno fotografato e restituito ognuno con una peculiarità personale l’isola di Capri, dal barone von Gloeden a Ferdinando Scianna e Giovanni Gastel, passando per Mimmo Jodice, Olivo Barbieri e Maurizio Galimberti, a marzo 2023 ha lanciato sui propri canali una open call aperta a tutti i fotografi, professionisti e non, per raccontare la quintessenza dell’isola di Capri. Ha chiesto ai candidati di esprimersi sul tema estremamente attuale dell’appartenenza e dell’inclusione. L’esito ha visto la candidatura di 185 fotografi da oltre 25 Paesi nel mondo, dall’Italia all’Ucraina, dalla Corea del Sud agli Stati Uniti, con più di 1100 immagini ricevute. I fotografi selezionati accompagneranno il visitatore nella splendida cornice del Quarto del Priore della Certosa di Capri, raccontando le loro storie attraverso i volti e i paesaggi dei loro scatti. Sono stati quindi selezionati 3 portfolio degli autori Sam Gregg, Marzio Toniolo e Giulia Frigieri e 15 single shots di altrettanti autori.
La quindicesima edizione del Festival, realizzata nella Certosa di San Giacomo in collaborazione con la Direzione regionale Musei Campania, è intitolata Questa è la mia terra e rinnova la sua volontà di contribuire, per mezzo di una precisa fusione tra medium espressivi e approcci differenti, a rivitalizzare la percezione iconografica del panorama caprese. Dando quindi la parola a fotografi nazionali e internazionali con oltre 60 immagini che, con le loro personali visioni artistiche, compongono una rassegna in bilico tra spazio e tempo. Si tratta di una scelta essenziale per riuscire a esprimere la quintessenza di Capri e, conseguentemente, restituirne un’immagine travolgente, svincolata da ogni stereotipo.
Ispirato dal lavoro di Letizia Battaglia e di Josef Koudelka, Sam comincia a frequentare il capoluogo partenopeo nel 2014. Scatta un vero e proprio colpo di fulmine con la città e i napoletani, che lo porta anche a trasferirsi per un periodo e che ancora oggi lo spinge a tornare in quello che per lui è diventato un luogo dell’anima. In questi quasi dieci anni di ricerca, il fotografo riesce a costruire un esaustivo corpus di immagini, ascoltando il suo istinto e senza seguire un vero e proprio percorso progettuale studiato a tavolino. La sua Napoli è quella che vive la consuetudine come qualcosa di straordinario. Non importa quanto ordinario possa sembrare quello che ci si trova davanti agli occhi mentre si passeggia per la città, perché la differenza la fanno i dettagli. Lo sguardo di Sam Gregg è quello dei soggetti ritratti e ci permette di comprendere quanto potenziale narrativo ci sia dietro ogni cosa o persona. Non esistono storie ordinarie, a condizione che si abbia la pazienza di andare oltre le apparenze. Il suo approccio, carico di empatia e umanità, gli permette di tessere rapporti profondi con le persone che fotografa, mettendoci di fronte a un risultato ricco di sfaccettature, tra le quali sembra emergere anche il lato psicologico insito nella ritrattistica. Questo lavoro trasmette emozioni proprio perché cattura lo spirito e i sentimenti degli esseri umani ritratti. È davvero difficile rimanere indifferenti di fronte a certi volti o espressioni e atmosfere.
Marzio Toniolo – 1984 a Ponte dell’Olio (Pc) Un Po mio
Il fiume per Marzio Toniolo rappresenta una perfetta metafora dell’esistenza. Ed ecco che il progetto intitolato “Un PO mio” si compone di frame capaci di abbandonare quei luoghi comuni tipici della documentazione di contesti desolati, per abbracciare l’imprevedibilità esplorativa. Ragion per cui tradizioni secolari, valori tanto inespressi quanto radicati nel tessuto ripario finiscono per tratteggiare un itinerario alla scoperta del territorio italiano. Un reportage dal sapore universale e certamente non privo di insidie. Infatti, Toniolo racconta in prima persona, nei suoi diari e nelle testimonianze social, di essersi trovato molte volte in situazioni pericolose, al limite della sopravvivenza, sbrogliate però da una catena di interventi salvifici. Marzio Toniolo dimostra un approccio lento e riflessivo, visivamente paragonabile all’immobilità grottesca propria degli scatti di Gregory Crewdson. In questo caso però l’impasto cinematografico non soltanto descrive il richiamo di una terra impossibile da abbandonare – ciascun personaggio, come negli scatti della serie Eveningside (2012-2021), sembra calcificato nella sua condizione marginalizzata -, bensì inquadra il Po come reliquia pagana grazie alla quale l’individualità del fotografo si dissolve in quella del soggetto riscrivendo le leggi di appartenenza comunitaria e geografica.
Coltivando la medesima familiarità ossessiva insita nelle foto di Sally Mann, Giulia Frigieri riesce a sintetizzare un’ambivalenza narrativa fatta di poeticità iconografica e rivelazione contenutistica. Assaporare i silenzi stagionali, cingere il grembo dell’isolamento territoriale, nutrire il seme dell’amicizia fraterna diventano le azioni di un manifesto giovanile che mette al centro i legami umani. Servendosi di inquadrature intime, pose sognanti ed elementi naturali come ancoraggi propiziatori in un abisso di incertezza, i ritratti di Giulia sottendono un deliberato processo di glorificazione dell’abbandono della fanciullezza. Come lei stessa afferma, in quella che ha tutta l’aria di essere una meditata dichiarazione di intenti: «Documentando le stagioni dell’arcipelago e le sfumature della sua gioventù, il mio progetto, che si estende per oltre due anni, vuole offrire uno sguardo sul momento più complesso e affascinante della crescita, divisa tra inverni tranquilli e malinconici, estati gioiose e tutto ciò che sta in mezzo». È solo entrando in una dimensione onirica, una sorta di terra di mezzo popolata dalle reminiscenze infantili, che risulta possibile comprendere a pieno lo sconfinamento sensoriale racchiuso in “Generazione Vulcano”. Questo allontanamento dal reale, reso possibile dal linguaggio fotografico, consente di raccontare storie immaginarie che diventano fonte di ispirazione per l’esistenza altrui.
Nella vita dell’uomo, i ricordi e la nostalgia compongono un intreccio indissolubile, forgiando la sua identità e plasmando la sua esistenza. I ricordi, come frammenti preziosi di un puzzle, si presentano come tasselli di un passato che non può essere cancellato o dimenticato. Ma c’è un sentimento che accompagna spesso i ricordi: la nostalgia. Questa sensazione dà vita a quella dolce malinconia che affiora nel cuore di fronte a ciò che non è più presente. La nostalgia è un richiamo delle emozioni, una mancanza che si nutre di ricordi per rendere vivi i frammenti di un tempo irripetibile. È un sentimento che si presenta a noi come una malinconica melodia che riempie la nostra mente e il nostro cuore. È un desiderio struggente di qualcosa che è stato, una connessione con ciò che non esiste più. Nostalgia deriva dal greco “nostos” e “algos”, il dolore di tornare a casa. È un’ombra che ci segue ovunque andiamo, ricordandoci delle esperienze perdute e delle emozioni ormai sfumate. Essa mette in risalto la nostra vulnerabilità, la nostra incapacità di trattenere le sensazioni che danno significato alla nostra esistenza. Attraverso essa l’uomo si confronta con la fluidità del tempo, con la fugacità degli istanti che, una volta vissuti, diventano un riflesso lontano. Rimpiange ciò che è stato, forse idealizzando quegli istanti passati, ma consapevole che non possono essere ripetuti. La nostalgia è come un abbraccio al passato, a quel che non sarà mai più, ma che continua a far parte di sé.
Finalmente posso andare è un progetto fotografico, estremamente intimo, realizzato da Cinzia Laliscia, che affronta il tema della perdita delle persone care. Attraverso le sue immagini Cinzia offre una prospettiva personale sull’immensa vastità del ricordo. Da un punto di vista etimologico, la parola “ricordo” deriva dal latino “recordor”, dal latino: re- indietro cor cuore. Richiamare in cuore, nel senso di richiamare alla propria memoria, in quanto il cuore era considerato la sede della memoria. Questa connessione tra il pensiero e l’emozione è fondamentale per comprendere l’obiettivo di Cinzia nel progetto “Finalmente posso andare”. Attraverso le sue fotografie, l’artista mira a far luce sulla necessità di riflettere e ricordare coloro che ci hanno lasciato.
In questo progetto fotografico, Cinzia esplora diversi aspetti della perdita e del ricordo. Le sue immagini sono profonde e suggestive, catturando la complessità delle emozioni che accompagnano il processo di lutto. Attraverso l’uso della luce, del colore e della composizione, l’artista crea un ambiente intimo che invita lo spettatore a immergersi nella propria esperienza personale di perdita. Una delle caratteristiche più evidenti, e a mio avviso potenti, di questo progetto è l’incapacità delle immagini di catturare completamente la realtà del ricordo. Le fotografie possono solo suggerire, evocando emozioni e ricordi, ma alla fine sono solo un frammento della storia. L’artista mi racconta: «Finalmente posso andare è un diario intimo e un flusso di coscienza che racconta la mia convivenza con la perdita di nonna e zia. Era il 2020 e l’Italia stava vivendo il primo lockdown a causa del Covid-19. Il virus non ha avuto nulla a che vedere con la loro morte, ma è diventato l’ostacolo tra me e la mia famiglia. Le ho perse, ma è come se non avessi potuto elaborare cosa stesse succedendo. Ero chiusa in casa insieme a suo fratello e due importanti parti di noi se ne erano appena andate: in quel momento tutto sembrava surreale. D’istinto, ho sentito l’esigenza di cercare un modo per elaborare il vuoto che sentivo. Ho iniziato a scavare nel mio archivio fotografico ed è allora che è nato questo racconto. Col tempo, ho capito che inconsciamente, stavo solo cercando di dare loro l’addio che tutti meritiamo.»
Cinzia Laliscia (1999) è una giovane fotografa intimista nata in Italia. I suoi racconti visivi nascono da temi quali la nostalgia, l’atemporalità, l’inconscio e il rapporto tra uomo e natura. L’atto di creare immagini e storie la aiuta a parlare di sue esperienze familiari e suoi ricordi. Nel 2020, ha avuto la sua prima pubblicazione nel libro collettivo Encourage edito da Canon durante il Visa Pour l’Image Festival di Perpignan e, a seguire, il suo lavoro è stato incluso nei libri collettivi AND 2022 edito da Then there was us e in Wildness flavour edito da Yogurt Editions. Nel 2021 si è laureata con lode in Arti Visive presso l’Istituto Europeo di Design di Roma. Il suo lavoro Finalmente posso andare, pubblicato nel 2022, è stato esposto in Festival e mostre in Italia, Spagna, Belgio e Grecia. Tra questi il PhotoVogue Festival, l’InCadaqués International Photo Festival, il Liquida PhotoFestival e la mostra New Talents 2022 curata da PEP. È stata menzionata sul Guardian, Vogue, Vanity Fair, Photo Vogue, Exibart, Artribune, Nowhere Diary e il suo lavoro è stato pubblicato su Perimetro, Der Greif e PhMuseum.
La montagna ha sempre esercitato un’importante influenza sull’arte e sugli artisti, passando da uno sfondo ad un soggetto centrale delle opere. Un esempio, tra i tanti, di come la montagna abbia influenzato l’arte risale all’epoca del Romanticismo, nel XVIII e XIX secolo. In quel periodo, i pittori romantici come Caspar David Friedrich in Germania e J.M.W. Turner in Inghilterra, tra gli altri, iniziarono a ritrarre le montagne come soggetti principali delle proprie opere. Questi artisti vedevano nella montagna un simbolo di sublime bellezza, evocazione di infinito e potenza della natura. Anche gli artisti contemporanei non sono rimasti indifferenti all’influenza della montagna. Ansel Adams, famoso per le sue fotografie in bianco e nero dei paesaggi americani, ha dedicato una parte significativa della sua carriera a ritrarre la montagna come soggetto principale. Le sue immagini dettagliate e precise delle montagne dell’Ovest degli Stati Uniti evocano un senso di imponenza e di tranquillità al tempo stesso. Yosemite National Park di Ansel Adams è un esempio iconico del suo lavoro. Questa fotografia cattura la grandiosità del paesaggio montano, con le vette che sembrano toccare il cielo e l’acqua che scorre delicatamente nel primo piano. Fotografie che hanno ispirato generazioni di fotografi che si sono cimentati in questo genere.
Per celebrare questo legame così profondo, tra arte e montagna, l’Accademia Carrara di Bergamo ospita Vette di Luce, un percorso espositivo a cura di M. Cristina Rodeschini e Paolo Plebani, che unisce passato e presente. La mostra, visitabile fino al 3 settembre 2023, si struttura mediante due percorsi: Il primo prevede le fotografie di Naoki Ishikawa, sempre dedicate alle Alpi Orobie, esposte in 5 luoghi diversi nel territorio (Fra.Mar a Pedrengo, Castello di Malpaga, BGY Milan Bergamo Airport, Resort Belmont a Foppolo, Museo Etnografico di Schilpario). Queste mostre spin-off rappresentano il viaggio del fotografo giapponese attraverso le montagne bergamasche. Il secondo percorso comprende la presenza di 17 riproduzioni di capolavori della Carrara in 17 rifugi CAI della provincia bergamasca.
La presenza di Naoki Ishikawa a Bergamo è stata fortemente voluta dall’Accademia Carrara, che ha commissionato al fotografo-alpinista giapponese un’indagine realizzata in tre campagne tra il 2022 e il 2023, per esplorare l’Alta Via e documentare in modo esperienziale il paesaggio, creando un profilo antropologico ed etnografico di questi territori. Come accadde quasi 150 anni fa con Vittorio Sella (fotografo-alpinista, 1859-1943), l’interesse per la narrazione della relazione tra l’uomo e la natura attraverso il paesaggio montano è stato rinnovato con questa spedizione. Lo spostarsi dalla città di partenza ai paesi e alle valli, incontrando animali lungo il percorso, è stato accompagnato da appunti e riflessioni che sono state documentate in una serie di immagini inedite. Il viaggio di Ishikawa è anche raccontato, in prima persona, in un documentario realizzato da Andrea Cossu, che viene esposto durante la mostra.
Due opere d’arte contemporanea completano il progetto espositivo. Una di queste è la video-audio installazione intitolata “Ricordo di un dolore”, realizzata nel 2020 dal duo artistico MASBEDO, composto da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, in prestito da GAMeC. L’installazione rappresenta un uomo che silenziosamente si arrampica verso la cima della Presolana, montagna che è stata anche oggetto di dipinti ottocenteschi esposti nella mostra. L’uomo porta sulle spalle una riproduzione del dipinto di Pellizza da Volpedo, un’opera appartenente alla collezione Carrara. Questo lavoro racconta la solitudine di un momento di dolore e la sua trasformazione in un’esperienza che si fonde con il paesaggio circostante. La seconda opera d’arte è intitolata La tana del Drago ed è stata realizzata nel 2023 da Matteo Rubbi, su commissione dell’Accademia Carrara per l’acquisizione dell’opera nella collezione. Questo lavoro è una ricostruzione immaginaria ed esperienziale delle Orobie, un viaggio che l’artista ha immaginato e poi fotografato, riproducendo montagne, fiumi, strade, paesi e città indicando i luoghi. Il risultato non è una mappa analitica, ma piuttosto un racconto visivo. Le montagne bergamasche sono sovrapposte a vecchi modelli di rappresentazione e alle nuove strutture del paesaggio urbano, come ville romane, porte di città, condomini, capannoni e industrie. Il titolo richiama l’immagine di una reliquia, la costola di un drago esposta nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore, all’imbocco della Val Brembana.
L’allestimento di una mostra d’arte è un processo complesso e affascinante che va ben oltre la semplice disposizione delle opere su pareti e pedane. È un vero e proprio atto creativo, un’opera d’arte a sé stante, che nasce dalla fusione tra visione artistica e competenza curatoriale. Un allestimento ben studiato può trasformare uno spazio in una narrazione tridimensionale che dà vita alle opere stesse. Attraverso un allestimento ben curato l’opera può prendere vita, facendo sì che i suoi messaggi e le sue emozioni si trasmettano in modo significativo all’osservatore, creando un legame profondo e duraturo tra l’arte e colui che la guarda. Andrea Isola, torinese di adozione ma sardo di origine, è un Exhibit Designer che lavora per fiere, fondazioni, musei, gallerie e artisti indipendenti in Italia e all’estero. Dal 2019 sulla sua pagina Instagram, attraverso l’hashtag #appuntidiunexhibitdesigner riflessioni e approfondimenti che riguardano il suo lavoro, e più in generale il mondo dell’exhibiton desing. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare di più.
Andrea Isola
Ciao Andrea, il tuo Curriculum è pieno di una vasta gamma di esperienze. Quando e come nasce il tuo interesse per l’architettura?
Nasce sostanzialmente da quando ho frequentato il Liceo Scientifico e ho riscontrato un certo interesse verso il disegno tecnico rispetto ad altre materie. L’attenzione al dettaglio, la curiosità e la precisione con la quale svolgevo i compiti che mi venivano dati sono stati segnali che mi hanno avvicinato al mondo dell’architettura. E devo ammettere che poi, quando ho iniziato l’università, ho capito che stavo percorrendo la strada giusta.
Exhibit Designer: una parola che racchiude molteplici universi; ma cosa significa nello specifico e, soprattutto, cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada?
Non sono un accanito di inglesismi, ma mi presento come Exhibit Designer per abbreviare “Architetto che progetta allestimenti di mostre e fiere d’arte” che potrebbe risultare un po’ lungo in certi contesti. Ho avuto la fortuna di fare le prime esperienze in ambienti fieristici e di mostre durante gli anni della specialistica, e al termine della Laurea in Architettura sono arrivato ad un bivio in cui ho capito che mi dava più emozioni e mi rendeva felice progettare mostre e fiere al posto di case, edifici o uffici. Le numerose esperienze pre Laurea mi hanno aperto gli occhi su cosa mi piacesse fare nella vita.
Tutti Pazzi di Ivan Cazzola, Galleria Noire, Torino. Credits Ivan Cazzola
Cosa si nasconde dietro le quinte di una mostra?
Si nasconde veramente un mondo, di professionisti e di mansioni. Dai curatori agli exhibit designers, dall’ufficio stampa a quello della comunicazione, dai montatori agli addetti alle pulizie, dai trasportatori agli assicuratori, in linea con la grandezza della mostra, il numero di ruoli e personalità coinvolte è alto (e ci sarebbero da indicare ancora fotografi, social media manager, restauratori, coordinatori, ecc..).
Forse dall’esterno non ci si rende neanche tanto conto, ma se ci fate caso, quando entrate in mostra, in uno dei primi pannelli che trovate, sono indicati i nomi di chi ha partecipato e vi accorgerete di quante professioni necessita la realizzazione di una mostra.
Una persona inesperta da cosa può giudicare il buon allestimento di una mostra?
Qualsiasi persona, esperta o inesperta, che va a vedere una mostra, alla domanda “Cosa ti è piaciuto?” dopo un primo commento sulle opere e sull’artista, inconsapevolmente analizza sempre fattori riguardanti l’allestimento: le luci, i colori alle pareti, l’atmosfera che hanno vissuto all’interno delle sale e la facilità di lettura dei testi. Questo spiega come un allestimento ha il potere di valorizzare o rovinare una mostra.
Dai tuoi progetti, che pubblichi sul tuo profilo Instagram con l’hashtag #appuntidiunexhibitdesigner, emerge un’attenzione costante ad ogni singola fase del progetto. Quali sono, e come definisci, le tappe del tuo lavoro? Le fasi di progetto di un allestimento sono diverse:
sopralluoghi
Riunioni con i clienti
Progetto definitivo
Riunioni con curatori e artisti
Progetto esecutivo
Rapporto con i fornitori
Organizzazione e presenza in cantiere
Per progettare una fiera o una grande mostra servono dei mesi di lavoro, anche perché, essendo un mestiere che necessita di una buona dose creativa, ci vuole il tempo necessario per ragionare, assimilare e smussare le imperfezioni.
È possibile individuare un elemento caratterizzante dei i tuoi lavori?
Ogni allestimento ha una storia a sé in base a tema di mostra, opere e spazio espositivo, quindi è difficile trovare un elemento caratterizzante. Però, prediligo disegnare allestimenti puliti e minimali, perciò potrebbe essere questo un fil rouge tra i miei progetti.
L’Italia ha una lunga storia nell’ambito degli allestimenti. Quali sono i tuoi punti di riferimento, e oggi a che punto siamo rispetto all’estero?
Uno tra tutti direi Carlo Scarpa, per il genio, l’attenzione al dettaglio e la creatività, fattori cardine se si vuole svolgere questo lavoro in maniera unica. Ma le ispirazioni vengono anche dai lavori di artisti e designer come Bruno Munari o architetti come Tadao Ando.
Parlo di exhibition design e allestimenti da anni con costanza su instagram e in questi anni ho notato tantissimo interesse verso la materia. Non che prima non esistesse questo mestiere, ci mancherebbe, ma c’era ancora parecchia confusione sul ruolo. Mi ricordo che all’inizio mi chiedevano se facessi l’allestitore, colui che monta fisicamente le mostre.
Negli anni però in tanti hanno capito l’importanza del progettista, riconoscendolo pubblicamente e ammetto che quando nei cataloghi delle mostre è citato l’exhibition designer mi fa sempre un grosso piacere. È capitato svariate volte di vedere esposizioni in cui non veniva assolutamente citato chi contribuiva alla progettazione dell’allestimento.
Death by GPS, Salvatore Vitale, Fondazione MAST, Bologna, 2023, credits courtesy MAST
Pittura, fotografia e scultura richiedono approcci diversi?
Assolutamente sì. Se provassimo a pensare, ad esempio, anche solo a uno dei fattori cardine dell’allestimento, come l’illuminazione, l’approccio è completamente differente. Le sculture hanno bisogno di una luce che rimarchi le ombre per la tridimensionalità, mentre in fotografia, dipende dai supporti di stampa, bisogna far attenzione ai riflessi. Nelle opere pittoriche, invece, bisogna utilizzare un tipo di supporto luminoso che metta maggiormente in risalto il colore e la tecnica.
Con l’avvento dei social media sono emersi nuovi comportamenti e vocabolari, tra cui il termine più diffuso, “instagrammabile”. Quanto influiscono o possono influire i social media sull’esito di una mostra?
Un progetto di allestimento di mostra non lo si pensa in base alle tendenze del momento o per farlo piacere a tutti i costi al grande pubblico, ma ci sono dei passaggi da rispettare.
È vero però, che nel 2023 non si può fare a meno dal pensare che i social network siano una enorme pubblicità gratuita alla mostra. Perciò una cosa che faccio al termine di ogni allestimento, ad esempio, è quella di controllare l’effetto di luci e ombre anche attraverso la fotocamera del telefono e cercare di aggiustare fastidi e riflessi. Può sembrare una banalità, ma il 95% del pubblico fa almeno una foto all’interno delle sale espositive e non ci si può permettere di far finta di nulla.
Qualche anticipazione sui tuoi prossimi lavori?
Non posso ancora fare troppe anticipazioni, ma a Settembre inaugurerà una mostra di un importante artista italiano del ‘900 a Modena.
Fino al 1° ottobre 2023, i Giardini dei Musei Reali accolgono La Rosa di Damasco. Dalla Siria a Torino, un progetto culturale ideato e condotto dai Musei Reali con il Syria Trust for Development e la Fondazione Santagata per l’Economia della Cultura, teso a promuovere il ruolo e l’importanza del secolare patrimonio culturale siriano nel bacino del Mediterraneo attraverso la Rosa di Damasco, uno dei prodotti più noti e iconici di quella regione.
La Rosa di Damasco. Dalla Siria a Torino
Delicata, ma non fragile, apprezzata in tutto il mondo per il profumo, le proprietà officinali e l’utilizzo come spezia, la Rosa damascena è stata evocata in fonti letterarie, come nella raccolta Le mille e una notte, e lodata da poeti come Shakespeare e Nizar Qabbani. Per secoli i contadini siriani hanno tramandato di generazione in generazione le conoscenze e le abilità di coltivazione e lavorazione del fiore. In tempi moderni, la coltivazione della Rosa si è sviluppata nella piccola città di Al-Mrah, sulla catena montuosa del Qalamoun orientale, in un’area che si estende nella campagna a nord di Damasco. Alla fine del 2019, l’UNESCO ha iscritto nella Lista del Patrimonio Immateriale dell’Umanità le pratiche e i mestieri legati alla Rosa di Damasco nel villaggio di Al-Mrah.
La Rosa di Damasco. Dalla Siria a Torino
Scientificamente nota come Rosa ✕ damascena, è un fiore dalla bellezza accattivante e dal profondo significato storico. Il suo fascino e il suo simbolismo hanno superato il tempo, rendendola oggetto di ammirazione e ispirazione. Le fotografie esposte, concesse dal Syria Trust for Development, propongono un viaggio per esplorarne il significato culturale e gli aspetti più affascinanti, dalle caratteristiche botaniche agli usi nella cosmesi e nelle preparazioni alimentari. Dalla scorsa primavera, nel Boschetto dei Giardini Reali, l’aiuola del Bastion Verde accoglie centinaia di esemplari di Rosa damascena provenienti dalla Siria, un giardino che accompagna il pubblico verso la mostra fotografica e l’installazione artistica Floral Tapestry of Craftsmanship.
La Rosa di Damasco. Dalla Siria a Torino
L’opera rende omaggio alle attività artigianali che hanno prosperato in Siria per secoli e celebra la maestria e la bellezza delle pratiche artistiche. L’installazione, esposta di fronte al Bastion Verde, rappresenta una grande Rosa di Damasco, realizzata con attenzione meticolosa ai dettagli. Ogni petalo è composto da vari materiali come il vetro, la ceramica, la madreperla e con lavorazioni tradizionali come il rame inciso, la paglia intrecciata e il tessuto broccato. Nella cultura siriana, la Rosa damascena rappresenta la bellezza e l’interconnessione di forme d’arte diverse: ingigantendone le dimensioni e diventando scultura, l’installazione invita il pubblico ad apprezzare i dettagli intricati e le caratteristiche uniche di ogni petalo, che rappresentano l’individualità e la creatività siriane. Per enfatizzare ulteriormente l’attenzione sulla bellezza dei particolari, gli autori dell’opera hanno scelto di rimanere anonimi, celebrando così le abilità collettive.
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